Wes Anderson. Genitori, figli e altri animali di Ilaria Feole
È uscita la prima monografia dedicata al regista dandy di Grand Budapest Hotel: un percorso cronologico attraverso i film per ricostruire i tratti inconfondibili dello stile e della poetica di uno degli autori più importanti del cinema contemporaneo
Edito dalla Heterotopia, collana di cultura cinematografica della casa editrice milanese Bietti, particolarmente attenta al panorama contemporaneo del mondo audio-visivo, e scritto dalla giovane critica Ilaria Feole, Genitori, figli e altri animali è la prima monografia italiana dedicata al regista texano Wes Anderson. Non è facile per alcuni ottenere una bibliografia di studi e analisi di vasta portato dopo soli otto film, ma per la cifra stilistica divenuta immediatamente autoriale e riconoscibile come quella di Anderson, sarebbero bastati anche i primi quattro.
La Feole ne segue il percorso cronologico dall’esordio Un colpo da dilettanti (primo corto poi lungometraggio) fino all’ultimo, enorme successo di critica e pubblico Grand Budapest Hotel, individuando le tipiche caratteristiche, formali e tematiche, innate e immutabili per tutta la filmografia, ma anche i punti di svolta e la crescita nella padronanza della macchina da presa.
Wes Anderson ha infatti adottato fin da subito una poetica personale sui generis, prima fra gli indie, poi libero da ogni definizione chiusa di genere. E insieme ad essa, ha adottato una categoria di personaggi figli della narrativa di Salinger, Dahl e di Gerald Durrell e il suo La mia famiglia e altri animali, a cui allude il titolo del libro. Personaggi provenienti dunque da famiglie disfunzionali, “inceppate, rotte e inefficienti”, come quelle esemplari de I Tenenbaum e Moonrise Kingdom; figli ormai adulti, bloccati in mondi infantili, impegnati in imprese folli e predestinate al fallimento. In completa stasi verso una maturità irrangiungibile, i corpi attoriali vengono immobilizzati anche fisicamente, utilizzati come marionette, “quasi costantemente in posa, o meglio, disposti all’interno dell’ambiente come manichini”. Perchè è proprio l’ambiente a definirli realmente, soprattutto quello che si costruiscono attorno, al riparo da un mondo esterno che li contraddice e li smaschera.
Il lavoro della Feole tenta così di svelarne la natura drammaturgica una volta per tutte: questi anti-eroi sono autori della loro stessa realtà in una narrazione alternativa di cui sono unici e gloriosi protagonisti. Come Max Fisher in Rushmore, Steve Zissou nelle sue Avventure acquatiche, Mr. Fox e Monsieur Gustave di Grand Budapest Hotel, si tratta di personaggi impegnati “costruzione della rappresentazione di sè che in quella di una famiglia/comunità” attraverso oggetti feticci, abiti e canzoni che sono “emanazione diretta della loro realtà”; realtà fragile e precaria perché ancorata all’infanzia (l’età preferita di Anderson) e a un’innocenza che prima o poi dovranno svanire inevitabilmente.
E in fondo dietro queste avventure “esteriori” ci sono storie di padri assenti, padri inadeguati, padri impreparati, padri mancati; e ancora più in profondità, una pulsione di morte che abita tutta la filmografia del regista: “per i piccoli autori di mondi di Wes Anderson la mortalita è il vero problema, in quanto ineludibile e irreversibile”. La morte, o la Storia più oscura nel caso di Grand Budapest Hotel, viene elusa attraverso quello stile che è ormai firma indiscussa di Anderson, un pastiche di ricordi vintage da fumetti, dischi, libri, illustrazioni del New Yorker che insieme alla moda, non in quanto status symbol ma come divisa caratteriale, e alla fotografia, in quanto evocatrice di atmosfere e ambienti come quella di David Hockney, compongono le sue inquadrature simmetriche tipiche.
Nel paradosso che lo vuole ormai figura mitica come un “Mago di Oz che interagisce da dietro una tenda” con i suoi collaboratori, Anderson si disvela direttamente nel suo cinema, negli assi verticali o orizzontali, nelle panoramiche a schiaffo, nei carrelli laterali, nei plongée (inquadrature dall’alto), nei ralenti, in tutti quei movimenti di macchina distaccati e impassibili, ma che coincidono perfettamente sia con lo sguardo ironico dello spettatatore sia con la soggettiva disturbata dei suoi protagonisti disadattati e “interrotti”.
La Feole sottolinea come inoltre, da Fantastic Mr. Fox in poi, Anderson abbia abbandonato definitivamente il già precario appiglio a luoghi reali – la New York dei Tenenbaum o l’India di Il treno per il Darjeeling sono sfondi puramente cinematografici, per non parlare della Belofonte di Steve Zissou – per mondi artificiali di sua invenzione, come l’isola di Moonrise Kingdom o la Repubblica di Zubrowka di Grand Budapest Hotel. Esattamente come i suoi personaggi, Anderson si è rifugiato in una stanza d’albergo e da lì procede a creare universi “di cartapesta”, rappresentazioni riflesse di se stesso, delle sue manie, della sua cultura cinematografica (che è respirabile, ma mai citata direttamente) e della sua condizione di Autore ossessivo-compulsivo.
Con una prefazione di Peter Bodganovich, a cui Anderson deve l’impianto agrodolce delle sue commedie, e con doverosi approfondimenti sui corti e sugli spot commerciali (come quelli dell’American Express o Prada, in cui “il prodotto risulta secondario rispetto allo stile affermato e riconoscibile dell’autore”), la monografia Genitori, figli e altri animali è un’ottima ricostruzione dei piccoli tasselli che mano a mano hanno reso Wes Anderson uno degli autori più riconosciuti della nuova generazione cinematografica, anche attraverso l’alta risonanza che ha avuto nell’immaginario di un certo tipo di pubblico, che forse non si discosta poi tanto dai suoi personaggi.
Hipster o non, giovani (e non) che comunque non riescono a passare all’età adulta, attaccati come Linus a cimeli (o a smartphone) e ad immagini che servono a definirli, iperattivi e allo stesso tempo con un arco di attenzione limitato.
Rimane ancora qualche curiosità per quello che è il film più complesso nonché più divertito e giocoso della sua carriera, Grand Budapest Hotel, dove in qualche modo sembra auto-celebrarsi e auto-distruggersi, proprio a causa della fama di sé che ormai arriva dei suoi film, ma il viaggio compiuto dalla Feole è il giusto compendio, analitico ma appassionato, per cominciare e/o ritornare a immergersi nella poetica andersoniana.