Un pantano chiamato Europa
Secondo un rapporto indipendente, solo l’Europa sta ritardando l’appuntamento con la ripresa dalla crisi economica cominciata ormai 6 anni fa
Se la maggior parte dei paesi del globo si sta scrollando di dosso il giogo della crisi economica, pare non si possa dire lo stesso dell’Europa. La ripresa sta tardando ad arrivare e il rischio che la stagnazione si trasformi in una situazione duratura diventa giorno dopo giorno più concreto. Questo il contenuto del rapporto indipendente sulla crescita (Iags) redatto dall’istituto di ricerca francese Ofce, in collaborazione con l’Eclm danese, l’Imk tedesco, l’Ak austriaca, Cambridge Econometrics e la facoltà parigina di Sciences Po. Secondo una metafora, dalla resa efficace, è stato intitolato: “Un pantano senza fine”.
Nel 2008 è cominciata “la più grande recessione economica mondiale successiva alla seconda guerra mondiale”, ma se la ripresa è arrivata “più o meno ovunque”, l’Europa e, in particolare l’Eurozona, resta “divisa”. È lo stesso progetto europeo a essere “in pericolo” in questo momento. Il Vecchio continente, sei anni dopo l’inizio della crisi, si è ritrovato “senza respiro” – mentre servirebbero energie per affrontare “potenti forze divergenti” finora “fomentate dal fallimento di una rapida uscita dalla crisi”. In breve, il rischio che la “stagnazione” diventi il nostro orizzonte per svariati decenni è dietro l’angolo.
La prosperità dei partiti anti-Europa è una dimostrazione dell’insofferenza mostrata verso “il controllo dei pari grado” per eccellenza esercitato, secondo la sensazione più diffusa, dalla Germania di Angela Merkel. L’imposizione dell’austerità al grido di “ce lo chiede l’Europa”, i continui tagli a servizi e spesa pubblica, sono avvertiti come una profonda ferita nelle istituzioni democratiche: “la disciplina è regolata attraverso la paura invece che per mezzo della responsabilità”.
In una tale situazione, la diffidenza verso le istituzioni comunitarie non potrà che aumentare. Una diffidenza tra l’altro alimentata dalle disuguaglianze tra Nord e Sud Europa, oltre che da quelle presenti all’interno dei singoli paesi: dalla quasi piena occupazione di Germania e Austria, si arriva a toccare il 25% di disoccupati in Spagna e Grecia. D’altra parte, proprio quello che dovrebbe essere il pezzo forte del “modello europeo”, l’eccellenza da esportare (cioè i diritti e in particolar modo quelli che tutelano i lavoratori) è stata individuata dissennatamente come “nemica” della crescita: “le riforme del mercato del lavoro amplificano la corsa a una diminuzione dei diritti sociali aumentando la disaffezione verso l’Europa”.
La nostra società va in frantumi, ma andrà ancora peggio se le scelte non cambieranno direzione: “la zona euro è alle porte della deflazione e un circolo vizioso di deflazione attraverso il debito potrebbe precipitarci in un periodo di stagnazione durevole” spiega il coordinatore del rapporto Xavier Timbeau. Bocciato quindi, dagli economisti autori del rapporto, il “piano Juncker” che prevede un moltiplicatore per cui ad ogni euro investito ne corrisponderanno 15 in circolazione. “Arriva troppo tardi e comunque è troppo poco” il commento sull’iniziativa del Presidente della Commissione Europea.
I 315 miliardi (in tre anni) stanziati da Juncker, insomma, non riusciranno a far uscire l’Europa dalla trappola del consolidamento fiscale. Un totem inseguito per troppi anni: alla fine ci rimangono in mano 26 milioni di disoccupati e prezzi troppo bassi, al limite della deflazione.
“Ci vuole un New Deal insieme a nuovo policy mix” ha dichiarato Maria Joao Rodriguez, vice presidente dell’eurogruppo socialista, che ha sposato la lettura controcorrente degli autori del rapporto Iags. Quindi la priorità dovrebbe diventare la crescita trainata dagli investimenti con respiro strategico, inoltre, il consolidamento del bilancio andrebbe perseguito in modo più ragionevole per ridurre i debiti senza sacrificare le potenzialità di crescita.
A questo punto i paesi con più margini dovrebbero stimolare la domanda in modo da ripianare le disuguaglianze. Tutto ciò sarebbe da porre in un quadro di lotta all’evasione fiscale e alla concorrenza sleale. In più se si prendesse in considerazione l’ipotesi di dare il via a un piano di investimenti europeo si sarebbe in grado di superare le strozzature nazionali. In più trasformando il debito dei singoli stati in debito europeo tutta l’economia continentale tornerebbe a “respirare sviluppo”.