L’affaire Charlie Hebdo e la Malacomunicazione
Oltre la tragedia. Una cavalcata mediatica su social network e informazione dopo l’attentato di Parigi. Perché non tutti sono Charlie?
Chiariamo immediatamente un punto. Quello di Charlie Hebdo per il sottoscritto non è mai stato un bell’esempio di satira, o per lo meno, ha talvolta travalicato quella sottile linea di confine tra offesa e, appunto, satira stessa. La quale deve essere cattiva si, pungente, ironica, dissacrante. Era ed è uno strumento del popolo per vendicare, distruggere, massacrare dialetticamente la figura del potente. Questa era la satira dell’Antica Grecia, nata nella culla della civiltà europea. Una civiltà che anche oggi però, sembra essere in balia dei propri mezzi e strumenti. C’è una malattia in occidente e si chiama Malacomunicazione e la tragedia capitata a Parigi l’ha, ancora una volta – per chi la vuol vedere – messa alla luce.
Una strage, un omicidio plurimo compiuto. Perché di questo si tratta. Il movente è chiaro, lapalissiano. Ma non è questo il nocciolo di questo articolo. O forse è lo spunto per una serie di riflessioni. Dicevamo, una civiltà in balia dei propri mezzi di comunicazione, ma forse non della opportuna coscienza. Perchè il giudizio risulta personale, intimo, soggettivo. Nel parlare di Malacomunicazione oggi, non mi riferisco alla Satira del settimanale transalpino che ha tutto il diritto di esistere.
Qua il nocciolo risiede nelle reazioni a tale tragedia. Perché al di là dell’evento luttuoso, il trend a cui si è assistito mostra tutta la superficialità di un mondo comune che cavalca l’ondata di disperazione mediatica.
Siamo tutti Charlie oggi? Siamo sicuri? In quanti si son fermati a ragionare su questo slogan? In quanti sono promotori di un settimanale che crea dissonanza d’opinione e in quanti sono molto più sinceramente e ignorantemente vicini ad una tragedia? Suona dissonante vedere una maestra di religione scrivere sulla propria bacheca #JeSuisCharlie, piuttosto che un più sincero cordoglio o, ancor meglio forse, un rispettoso silenzio. Ma tant’è, la coscienza di ognuno di noi non è sindacabile, ed inoltre la libertà di comunicare è sacra e inviolabile. Incoerente e ignorante forse, ma inviolabile.
Dove voglio andare a parare? La comunicazione oggi sta vivendo su due binari paralleli: quello dei grandi mezzi di informazione e quello libero (e incontrollato, se vogliamo), del “pianeta” social. Una fortuna, un esempio di libertà di espressione democratica imprescindibile. Ma se il medium è, o dovrebbe essere, dettato da regole e formazione, la comunicazione sociale porta ad essere un flusso liquido che crea talvolta confusione, squilibri.
I cosiddetti leader d’opinione sono sparsi nell’etere, e si rivelano in base ai ‘like’. Ecco quindi una prima faccia della vera Malacomunicazione, la vittoria di una propaganda nata dall’alto che sfrutta (in)coerentemente la luce dei riflettori. No, non la propria, ma dell’avvenimento, della tragedia. Non è un attentanto, ma un’attentato alla comunicazione compiuto da barbari integralisti. Che ci siano di mezzo dodici morti è quasi un dato accessorio.
È La Malacomunicazione sociale di Marie Le Pen via Twitter che più volte si è scagliata contro il settimanale ed ora invoca un referendum sulla pena di morte. Più tradizionalmente, ri-attraversando le Alpi verso l’Italia, è quella de “Il Giornale” che cavalca l’onda della questione della diversità titolando “Macellai islamici” o ancora peggio di Libero che esce in prima pagina con un sensazionalistico “Questo è l’Islam”.
Sensazionalismo, come la corsa allo show dell’uccisione di quel povero poliziotto, giustiziato a freddo. Immagini che un mezzo di informazione, non avrebbe nemmeno dovuto mostrare, perché di fatto, non aggiungono nulla al messaggio, se non – appunto – uno spettacolo tragico e macabro. Una scelta che viene cavalcata da tempo: raccontare e informare di una tragedia non basta più: bisogna mostrarla. Ma a che pro? Cosa aggiunge?
La rilevanza dell’evento è stata una catapulta, e la comunicazione, anzi, la Malacomunicazione, ha creato un effetto domino dettato dalla paura in cui anche alcuni dei nostri esponenti politici hanno colto la palla al balzo, rincarando su concetti quale immigrazione e delinquenza. Discorsi che sono stati promulgati, e sono volati nell’aria, scatenando – tra le varie reazioni – anche odio senza ombra di dubbio.
Strumenti come Facebook o Twitter hanno un’importanza inestimabile in questi casi e chi ha in mano le chiavi di una comunicazione estremamente libera e praticamente senza limiti come quella dei social, avrebbe dovuto pensare a ciò che stava per scrivere, non cavalcare l’onda. Ponderare bene, ben sapendo che l’odio può generare odio. Ma forse, per questo, servirebbe una coscienza civile, e non una coscienza partitica che sfrutta le falle di un sistema politico-sociale per puntare l’indice.
Ed allora ci sarebbe anche dell’ironia se non ci fossero di mezzo 12 vittime innocenti. Lo scrittore musulmano e attivista politico libanese musulmano Djab Abou Jahja ha twittato: “Sono Ahmed, il poliziotto ucciso. Charlie ridicolizzava la mia fede e la mia cultura e sono morto difendendo il suo diritto a farlo”.
La Malacomunicazione può esserci in ognuno di noi, singolarmente. Comprensibile, naturale, legittima, se non sfocia nella limitazione altrui. Inaccettabile da chi fa dell’informazione o della politica il proprio mestiere. Perché nella sensazionalità della notizia posta sotto la luce mediatica, si oscurano gli oltre 90 giornalisti morti nel mondo nell’ultimo anno. Si, 90, non solo i due americani uccisi dall’Isis, ma anche tutti quelli locali che nelle zone di guerra vengono uccisi da terroristi-assassini-uomini di potere che non vogliono la libertà di informazione.
Io non sono Charlie. Sono molto più semplicemente Flavio e non apprezzo i lavori del settimanale francese, vero. Ma sono libero di esprimere le mie critiche come tutti, il mio sdegno per una tragedia fatta da fanatici, la mia vicinanza a chi, libero e innocente cittadino, viene accomunato a degli assassini per la propria religione. E, da uomo di informazione, ho il dovere di far si che non vinca la Malacomunicazione.