Il cammino diplomatico della Palestina
Il costante ed instabile conflitto arabo-israeliano, è stato nuovamente argomento di discussione in quella sfera occidentale mai completamente convinta mediatrice tra i due popoli duellanti. La fine del 2014 e l’inizio del 2015 hanno segnato nuovi mutamenti evolutivi sull’affare Palestina
Ripercorrendo gli ultimi mesi dell’anno appena trascorso si inciampa con una certa ripetizione sullo storico dilemma dello Stato Palestinese: crescente e di un certo insopportabile peso è divenuta infatti l’attenzione per le politiche israeliane e per la frustrante situazione dei cittadini palestinesi. Il primo grande punto interrogativo riguarda il riconoscimento della Palestina come Stato in seno alle Nazioni Unite: proprio nell’ultimo periodo si sono compiuti importanti passi in avanti verso questa direzione, nonostante il ferreo ed arcigno diniego degli Stati Uniti ed altri Paesi vicini ad Israele.
I primi istanti del 2015 riportano la gioia dell’Autorità Nazionale Palestinese dopo il via libera alla adesione presso la Corte Penale Internazionale. Fatto storico e di una certa importanza rispetto alla possibilità di trasferire le ostilità con Israele su un campo giuridico internazionale.
Questo risultato, di certo non irrilevante, è l’ultimo di una serie di tasselli incastrati all’interno di un quadro più ampio e dal chiaro valore nazionale per il popolo palestinese agli occhi dell’intera comunità internazionale.
Tornando al vecchio anno, è per l’appunto nel 2014 che diversi Paesi di appartenenza europea si sono espressi con voti simbolici a favore dello Stato di Palestina: in sequenza cronologica il via libera è di lingua inglese, il 14 ottobre 2014 la Camera dei Comuni britannica vota una mozione non vincolante per il riconoscimento dello Stato palestinese. Nello stesso mese, anche il governo svedese si decide a rivolgersi con l’appellativo di Stato nei confronti della Palestina. Il 19 novembre entra in scena la Spagna; i parlamentari votano a favore di una proposta che invita il governo Rajoy a riconoscere la Palestina come entità statale. Nel mese di dicembre 2014 è la Francia a seguire le orme dei Paesi europei intenzionati a dare una svolta all’annosa questione mediorientale, segue poi l’Irlanda, il Portogallo e la stessa Unione Europea.
In un solo giorno di freddo e prenatalizio dicembre, l’Europa si rende ostile agli occhi del premier israeliano Netanyahu. Il Tribunale europeo con sede a Lussemburgo, decide infatti di cancellare l’iscrizione di Hamas dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche. Seppur immediate sono state le giustificazioni legate ad un motivo puramente tecnico – ripetute con timorosa voce da diversi rappresentanti europei nonché dello stesso Alto Rappresentante per la politica Estera Federica Mogherini – la reazione di Israele non ha lasciato margini di scuse.
L’ira funesta del governo israeliano si è resa ancor di più inarrestabile quando l’aula di Strasburgo ha approvato con larga maggioranza un testo di risoluzione congiunta a favore “in linea di principio” del riconoscimento dello Stato palestinese e di una soluzione finale con due Stati e due Popoli – principio oltretutto animato ed elogiato da anni dalle autorità palestinesi – e poi un invito per il ritorno ai confini del 1967.
Con i suoi ritmi decisamente più lenti, anche l’Italia tenterà la scommessa del riconoscimento statale palestinese, il prossimo 16 gennaio, quando alla Camera dei Deputati si voterà all’interno dell’ordine del giorno, la mozione presentata da Sel e già tanto polemizzata dalle fronde del centrodestra di Ncd e Fi.
La fine dell’anno è giunta ed un’altra novità attende il processo risolutivo per la Palestina in cerca di alleati. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite prende mano sulla risoluzione palestinese presentata dalla Giordania per un accordo di pace ed un conseguente ritiro d’Israele dai territori occupati entro la fine del 2017. La contrarietà dell’Australia e degli Stati Uniti frantuma il tentativo giordano sostenuto da soli 8 voti a favore. L’arte di manovrare i fili decisionali è stata, come spesso è accaduto sulla vicenda israelo-palestinese, di mano statunitense. La stessa ambasciatrice americana all’Onu Samantha Power ha ben presto smorzato gli animi dichiarando la netta opposizione americana per un compromesso ritenuto squilibrato e possibile fiamma per altro fuoco di guerra tra i due popoli.
Dall’altro lato della ragione, così ha esordito l’ambasciatore palestinese all’Onu Riyad Mansour: “Il risultato del voto di oggi dimostra che il Consiglio di Sicurezza nel suo complesso, evidentemente, non è ancora pronto”. Per poter essere adottata, la risoluzione avrebbe avuto bisogno di 9 voti su 15, ma è chiara la difficoltà degli Stati Uniti nel barcamenarsi tra due diverse posizioni e verità storiche come quella d’Israele e come quella di Palestina.
La volontà di gridare la propria esistenza al Mondo non sembra assolutamente placarsi, né tanto meno scendere a compromessi restrittivi; così i piani dei buoni propositi palestinesi per il nuovo anno hano continuato a tentar la sorte della politica internazionale. Dopo aver deludentemente inghiottito il no del Consiglio di Sicurezza Onu, Abu Mazen ha aderito allo Statuto di Roma, carta fondante della Corte Penale Internazionale.
La valenza di questo tribunale, istituito il 17 luglio 1998, è tale da aver richiesto un lungo e complesso percorso di lavori preparatori nell’ambito delle Nazioni Unite. Il fine ultimo, di natura globale, ha prevalso sul difficile compromesso politico. Si voleva porre fine a tutte le impunità compiute dagli autori dei più gravi crimini internazionali, rabbia e rancore frutto di un passato di guerre mondiali, di divisioni ideologiche, di decolonizzazione e scissione tra Nord e Sud del Mondo. Così ora anche la Palestina potrà avviare processi d’indagine per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini di genocidio che hanno macchiato i territori palestinesi.
Il principale indiziato, inutile sottolinearlo, sarà Israele – paese nemico da quando nel 1948 l’area mediorientale subì enormi trasformazioni di confine per la nascita del nuovo Stato ebraico, voluto e desiderato da fin troppi anni da un popolo senza casa e senza terra.
I casi concreti sui quali la Palestina potrà accusare le autorità israeliane sono diversi e dal grave peso umano. Il gruppo umanitario di Human Rights Watch ha più volte diffuso accuse contro Israele per aver perpetrato crimini di guerra, tra gli ultimi basti ricordare le stragi di Gaza dell’estate 2014.
Il definitivo avvallo del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon rispetto all’adesione palestinese alla CPI dal 1 aprile 2015, ha non poco irritato Israele, la quale come probabile atto di rivalsa, ha reagito con un arma economica. Una cifra pari a 127 milioni di dollari da trasferire all’Autorità Nazionale Palestinese, è stata infatti bloccata dal governo di Netanyahu. Si trattava di imposte raccolte da Israele in Cisgiordania e destinate all’ANP, come previsto dagli accordi di Oslo del 1993 – ossia quelle stesse carte che hanno formulato lo slogan: “Due Popoli, due Stati”.
La piena ed esibita ostilità israeliana trova proprio nella politica statunitense il suo primo sostenitore, ma ciò che realmente potrà chiarire come potrà evolversi la ricercata formula magica per la nascita dello Stato di Palestina saranno anche le prossime elezioni israeliane indette per il 17 marzo 2015.
Nell’attesa, la Palestina gioca a calcio: si tratta del suo esordio a livello internazionale, sfiderà le selezioni delle nazionali partecipanti alla Coppa d’Asia. E chissà se almeno sul campo di gioco riuscirà a conquistare una vittoria cercata da tempo.