“Il nero e l’argento” di Paolo Giordano
Vincitore del Premio Strega nel 2008 con “La solitudine dei numeri primi”, Paolo Giordano torna in libreria con un breve e struggente romanzo, “Il nero e l’argento”
“A partire da quel giorno abbiamo svuotato entrambi sacche di risentimento celate da lungo tempo, in un crescendo penoso e inarrestabile“.
Ecco cosa accade ad un certo punto della vita, accade che si viene allo scoperto e ci si abbandona all’ingiustizia del destino, che nel frattempo ha allontanato da noi quel gruzzolo di certezze costruite nel corso di lunghi e faticosi anni.
Il gruzzolo di certezze, per Nora e suo marito (che è anche voce narrante del romanzo), è racchiuso in un’unica figura, quella della signora A., la domestica che per diversi anni comporrà il puzzle di un amore tanto sicuro quanto fragile, tanto ovvio quanto incerto, come quello tra i giovani ed inesperti protagonisti.
“Il nero e l’argento“ di Paolo Giordano non è solo il racconto di una esistenza – quella della signora A., o di Babette che dir si voglia – che ne illumina altre due di luce riflessa, ma è anche e soprattutto lo specchio di una modernità alle prese con la tradizione, una tradizione che viene denigrata, irrisa persino, ma di cui, tuttavia, non potrebbe fare a meno, in quanto guida imprescindibile delle vicende umane.
Nora e suo marito sono due elementi che, se amalgamati, formano una opaca coppia borghese, tenuta insieme da quel collante poco convincente che è la normalità: nessun respiro di inquieta passione, nessuno stralcio di entusiasmo, nessun silenzio di euforica complicità. Nessun segno di vita, a parte quella di tutti i giorni.
Eppure è quella la loro felicità, la loro annegata serenità matrimoniale, fin quando Nora, incinta di Emanuele, non avrà bisogno di qualcuno che la aiuti nel periodo della gravidanza, che si prenda cura di lei e della casa. Detto fatto, ecco che la signora A. si intrufola nella loro quotidianità e, come una mamma amorevole e severa al tempo stesso, riordina i pezzi della consuetudine coniugale e abbraccia in una morsa tenace le anime dei protagonisti.
Se Nora è moglie e madre attenta, che ben si destreggia tra l’incertezza di emozioni che fatica ad esternare e la consapevolezza che il loro equilibrio dipenda in modo quasi atroce dalla signora A., il marito, ricercatore e professore universitario a contratto, tra una legge di gravitazione universale e un’equazione sintetica di Maxwell, assiste alla costruzione di un mondo familiare che ruota attorno a Babette, la quale non è più solo la balia del piccolo Emanuele, ma è la balia di tutti e tre, è la culla delle loro mancanze, il rifugio del loro avvenire e lo stimolo al raggiungimento della perfezione.
Grazie alla Babette tuttofare di cui solo alla fine si saprà il vero nome, i sentimenti arruffati di Nora e del giovane marito iniziano ad intrecciarsi, a seguire la via seminata inconsapevolmente dalla signora A.
Abbandonandosi al pensiero che quella vecchia e vivace donna vegli instancabilmente su di loro, come un crocifisso animato, che parla e ammonisce, che instrada e tende la mano dolce e rugosa, la coppia moltiplica il tempo della conoscenza reciproca, un tempo necessario che si dilata e si restringe sotto i colpi del destino, che si accanisce proprio contro Babette.
Un male incurabile prende presto possesso del corpo della signora A., svuotandolo dall’interno e sbeffeggiandolo all’esterno: quella donna “convenzionale, intrisa di dottrina e fatalmente maschilista” che è stata custode di un amore alle prime armi, nonché bussola e guida degli smarrimenti di due giovani in cerca di se stessi e dell’altro, quella donna ha ormai terminato la sua corsa, e torna in quel luogo dove non è mai stata e dove l’attende l’amore di sempre, Renato.
Naufragando in un mare di cocente quiete, Nora e suo marito, ora, si trovano a fare i conti con il loro vuoto, con quei buchi di nulla che riempiono di provocazioni, risentimenti, odio dimesso e represso. Una coppia che si ammala di solitudine, di insicurezza e di ripetizione.
Con uno stile asciutto e mai banale, traboccante di quell’amarezza che solo la nuda e cruda verità porta con sé, Paolo Giordano si insinua tra le pieghe dei sentimenti umani, assaporando la dolcezza di essersi ritrovati dopo aver creduto di essersi persi, l’asprezza dell’addio involontario, l’acredine di una vita sbrindellata, che non odora più di bucato, ma di cibo andato a male.
Cento pagine di snervante dolore che Giordano adagia tra le righe di questo romanzo e appiattisce persino nei bianchi silenzi tra un capoverso e l’altro, mentre trascina sul piano della realtà anche i concetti metafisici della morte e dell’altrove, di quelle idee di vita e non-vita che si colorano di nero e argento.
“Ero sicuro che l’argento di Nora e il mio nero si stessero mischiando nettamente e che lo stesso fluido metallico e brunito avrebbe infine percorso entrambi. (…) Mi sbagliavo. Ci sbagliavamo. (…) Eravamo, a dispetto delle nostre speranze, insolubili l’uno nell’altro“.
Paolo Giordano
Il nero e l’argento
Einaudi, 2014
pp. 118