“Boyhood”, il film che ha rivoluzionato il cinema. O no?
Il film rivelazione del 2014 è tornato nei cinema dal 22 Gennaio, dopo la vittoria ai Golden Globe e le 6 nomination agli Oscar 2015. Una recensione controcorrente del lungometraggio che ha tentato di ingabbiare il Tempo
Orso d’Argento al Festival di Berlino del 2014, l’ultimo lavoro di Richard Linklater ha lentamente conquistato il favore unanime della critica europea e americana, concorde sulla rivoluzione apportata dal procedimento di lavorazione in cui per la prima volta il Tempo incide realmente sul corpo dei personaggi. Vincitore come Miglior Film ai Golden Globes e nominato a 6 premi Oscar, tra quelli più importanti, incluso quello per Miglior Sceneggiatura Originale e Migliori Attori non protagonisti (Ethan Hawke e Patricia Arquette), Boyhood è stato infatti girato nell’arco di 12 anni, seguendo la crescita di un bambino fino al suo ingresso al college.
Riunendo una troupe ristretta di amici per un paio di settimane all’anno, Richard Linklater ha così costruito un moderno racconto di formazione, sceneggiato ma neanche troppo, cercando di attingere più all’universalità dell’esperienza comune che alla particolarità di una storia specifica e significante di per sé. Il film ha raccolto entusiasmi disparati da ogni dove proprio per il suo coincidere mimetico con il reale, o meglio, con il verosimile, perché di documentario non si tratta; per i segni visibili dello scorrere del tempo, finalmente accettabili dallo spettatore senza sottoscrivere il famoso contratto di credibilità; per una sua naturalezza narrativa e l’includere nella storia dei cosiddetti momenti “noiosi”, privi di avvenimenti significativi (e quindi cinematografici), che fanno parte della vita di tutti i giorni, quella solitamente lontana dal cinema.
Sono questi gli elementi principali esaltati dalla critica internazionale: forse però, passata la fase di novità, assimilata la reazione giustamente incantata dal tipo di operazione filmica, ecco, forse è tempo di ridimensionare Boyhood e di rileggerlo dal punto di vista strettamente drammaturgico (perché di documentario, ricordiamo, non si tratta). Ma è un’intenzione che si rivela fallimentare a prescindere, perché Boyhood non è un film sulla vita di Mason, sulla vita da figlio di divorziati, sulle prime delusioni amorose e sul passaggio alla vita adulta: alla fine dei conti Boyhood risulta essere un puro esperimento cinematografico sulla rappresentazione del Tempo, nel tentativo di cristallizzarlo ed estenderlo nello stesso momento, di catturare l’istante e inserirlo in una fotografia più grande, dentro una lunga linea narrativa compressa e ingannevole.
Lo stesso sforzo di assegnare a ogni sequenza un noto e preciso riferimento storico, politico o culturale (la guerra in Iraq, l’elezione di Obama, la colonna sonora specifica del periodo), nonché ossessioni e vizi di cui il popolo texano è bandiera, armi e preghiera, è appiccicato alle immagini senza coinvolgimento e convinzione; non come una vera e propria testimonianza dei fatti, né casuale, ma furba citazione in vista dell’evoluzione futura.
Boyhood, purtroppo, compiaciuto del progetto che lo anima, non riesce ad andare avanti e a superarsi in quanto esperimento, e forse alla fine, ne dichiara contemporaneamente la sconfitta: al di là di ogni pretesa di naturalismo, la sceneggiatura non brilla certo per originalità o profondità emotiva, continuando a parlarsi addosso del suo farsi, delle sue motivazioni e del suo scopo finale, il quale probabilmente non c’è, coincidendo con quello universale della vita di tutti.
“Qual è il senso?” chiede Mason al padre. Nessuno lo sa.
Linklater in Boyhood porta avanti un discorso parallelo e apparentemente più estremo della trilogia Before Sunrise, Sunset e Midnight la quale, in realtà, scrive e traccia indelibilmente nel Tempo la storia di Jesse e Celine in maniera molto più efficace di quella di Mason; in questo caso, il tempo trascorre sia per lo spettatore che per i protagonisti, portando a una mimesi aderente sia alla temporalità personale, interna, che a quella, esterna, del racconto. Gli attori invecchiano non con noi, ma come noi, vivendo empiricamente il tempo nella forma in cui lo ricorderemo e lo racconteremo.
“Il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo” afferma Paul Ricoeur in Tempo e racconto, riprendendo la mimesi di Aristotele come atto creativo: l’impressione è che Boyhood sia lontano dal narrare la fanciullezza, più preoccupato nel mostrarla, senza però infine rivelarci nulla più del non-senso del tempo individuale, o senza farcelo comprendere meglio, mettendolo più a fuoco; soprattutto laddove, di nuovo, non si tratta di un documentario.
“I just thought there would be more” (pensavo ci fosse qualcosa di più): esclama sfinita la Arquette, nel momento in cui vede partire il figlio; lo esclamiamo anche noi, delusi dalla convenzionalità messa in scena e da una regia programmatica.
Bisogna riconoscere che la differenza tra cinema e sperimentazione: ci sembra che Boyhood non si elevi dal suo essere esperimento e, che nel suo rinunciare a una forma predefinita (il montaggio non è che un accostamento delle sequenze girate negli anni), rinunci a uno sguardo personale, perdendosi nei suoi meccanismi di costruzione piuttosto che nella sua risoluzione.
Sia chiaro: anche con questa prova, Linklater conferma una grazia e sensibilità rare ad Hollywod – così come Ethan Hawke si attesta ad essere uno degli attori più capaci e curiosi della sua generazione.
Nel sottolineare l’essere comune, non speciale, forse banale, del suo protagonista, Linklater è spietato ma assolutamente libero e, per questo, vincitore.
Ed è vero: il momento cattura noi, e non il contrario, ma poi bisogna saperlo raccontare.