Lacci di Domenico Starnone
La sofferenza di un abbandono, l’incapacità di perdonare, il dolore che continua ad affacciarsi ancora dopo anni. Tutto questo è “Lacci”, il nuovo libro di Domenico Starnone
“Sono passati gli anni e i decenni in questo gioco e ne abbiamo fatto una consuetudine: vivere nel disastro, godere dell’ignominia, questo è stato il nostro collante”.
Cosa significa amarsi? Qual è il senso più profondo del matrimonio? E che cosa vuol dire passare tutto il resto della propria vita con qualcuno, “finché morte non ci separi”?
Occorrerebbe partire da questo per arrivare a chiedersi, invece: che rumore fa la porta che si chiude in un giorno qualunque, di un anno qualsiasi, di una casa come tante? Che rumore fa la paura di non vederla più aprirsi? Che rumore fa la sofferenza di un abbandono?
Potete trovare tutte le risposte (o non-risposte) all’interno dell’ultimo libro di Domenico Starnone, Lacci.
“Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie”: così esordisce Vanda, la protagonista femminile di questo doloroso libro, consorte infelice e sola, moglie abbandonata e frustrata, donna incattivita e sofferente.
Vanda vive a Napoli, con i due figli Sergio e Anna, e fino a qualche mese prima anche con Aldo, il marito di sempre, quello che si dà per scontato, quello che c’è perché deve esserci, comunque vadano le cose.
E invece no, Aldo da qualche mese non c’è più, ha lasciato moglie e figli, la casa napoletana e le strade affollate di una città che offre molto meno di quanto ha da offrire Roma, il nuovo rifugio, la culla del suo rinnovamento, insieme ad un lavoro che darà pian piano i suoi frutti e soprattutto insieme a Lidia, amore giovane e fresco, sincero e coinvolgente, vissuto con tenero trasporto e profonda commozione.
Vanda non comprende tutto ciò, non riesce a mettersi nei panni di un uomo che vuole rinascere, che vuole rimettere in gioco tutte le carte che ha, che avverte la profonda crisi di un matrimonio agli sgoccioli.
Aldo brama la libertà, quella libertà interiore, quella libertà mentale, quella leggerezza dello spirito e del cuore che Lidia riesce a fargli intravedere.
Eppure la disperazione è totale, fino alla fine: Aldo dopo anni tornerà alla vita di sempre, immerso in una famiglia che non è più sua, o forse non lo è mai stata, con due figli estranei ai propri genitori e due genitori estranei ai propri figli e a loro stessi.
All’interno di questo romanzo dall’agghiacciante sapore psicologico, due sono le linee guida, che tracciano il sentiero che porta al vicolo cieco delle misere esistenze delineate all’interno: il potere di Vanda, la debolezza di Aldo. I fili di questo fragile matrimonio si aggrovigliano attorno a questi due imprescindibili elementi.
Se Vanda appare come vittima di un abbandono da parte del carnefice Aldo, in realtà è proprio Aldo che, nonostante pensi che il matrimonio e la fedeltà siano concetti ormai superati e ufficialmente agonizzanti, è eternamente succube della violenza psicologica di Vanda.
Aldo teme Vanda, la teme come donna, come moglie e ancor prima come essere umano, superiore a lui in forza, determinazione e caparbietà.
Vanda, intimamente se pur inconsciamente consapevole di tutto ciò, sembra diventare una madre che richiama all’ordine il bambino disubbidiente, e lo fa attraverso le due lettere poste in apertura del romanzo, ammonendo un uomo di quasi quarant’anni con un semplice e diretto: “Non mi far perdere la pazienza, Aldo, sta’ attento. Se mi ci metto, te la faccio pagare”.
L’estrema chiarezza di Vanda cozza con le sfuggenti spiegazioni di Aldo che, barcollante nella sua immatura concezione di vita, non è in grado di fornire convincenti spiegazioni alla madre dei suoi figli, non riesce a dirle il perché delle sue azioni, non ha la forza, il coraggio e la voglia di spiegare a Vanda quel nuovo ed intimo concetto di felicità, che ha il volto e il sorriso di Lidia.
Il ritorno di Aldo altro non è che un ritorno all’ordine innaturale delle cose, non è altro che una estenuante obbedienza a ciò che il contratto stipulato con Vanda aveva previsto, anni addietro. Per sopravvivere a tutto ciò, Aldo deve mantenere l’illusione di una libertà che trova sbocco in frequenti scappatelle, brevi flirt con donne sposate e senza pretese.
La disperazione di Vanda, la paura che si affacciava al pensiero delle sue crisi di pianto e di rabbia, hanno tenuto insieme una famiglia ai limiti della sopportazione, in cui una tensione continua mordeva il collo di figli e genitori, sfiancati dai ripetuti colpi di una vita rattoppata e perpetuamente sanguinante.
L’odio il collante più tenace, la rabbia il laccio più stretto, il dolore la corda più lunga: elementi di una storia senza fine.
Un romanzo avvincente e scottante quello di Domenico Starnone, pur nella semplicità della tematica e nella quasi completa assenza di azione. Usando le parole come un’accetta, l’ex redattore delle pagine culturali de “il manifesto” ha dato prova di grande maestrìa nel delineare figure di uomini e di donne nitide e curate fin nei minimi dettagli, senza tralasciare l’originalità della struttura.
Il racconto si apre infatti con le lettere di Vanda ad Aldo, ai tempi dell’abbandono del tetto coniugale, passando poi al racconto contemporaneo di Aldo, nonché al suo punto di vista, per approdare ad un finale sicuramente sorprendente, che ha come voci narranti Sandro e Anna, i figli della coppia.
Asciutto ed essenziale, Lacci porta con sé una cattiveria connaturata ed intriseca, avallata da una logica stringente e da una retorica assolutamente appassionante.
Lacci
Domenico Starnone
Einaudi, 2014
pp. 133