Riforme, l’uomo solo al comando

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Si chiude con il voto favorevole sui quaranta articoli del Ddl Boschi e un abbraccio via Twitter di Matteo Renzi a gufi e sorci verdi, il weekend più difficile dall’arrivo del rottamatore a Palazzo Chigi.
Le riforme sono a un passo, il voto finale sulla legge che modificherà l’intera seconda parte della Costituzione è fissato per marzo. Ma le opposizioni sono sul piede di guerra e durante le sedute notturne di giovedì e venerdì quei piedi sono letteralmente saliti sui banchi di Montecitorio

di Ivana Giannone

RenzimasterEspulsioni a 5 stelle. A scaldare gli animi la decisione di procedere con il voto a oltranza, in tempi strettissimi, tagliando di netto la discussione articolo per articolo. Ma non solo. Nel pomeriggio di giovedì si parlava di un avvicinamento fra Pd e Movimento 5 Stelle, intenzionato a votare il Ddl sulle riforme in cambio di un parere favorevole sul referendum propositivo senza quorum. Aspettativa infranta dal capogruppo Pd alla Camera Roberto Speranza, e in realtà malvista anche dalle altre forze politiche. Durante la seduta fiume della notte i pentastellati danno vita a una bagarre, fatta di schiamazzi, cori e faldoni sbattuti sui banchi. È il delirio. E il presidente di turno, il Pd Roberto Giachetti, espelle uno dopo l’altro 5 deputati grillini.

Una rissa in famiglia. Da verbale lo scontro diventa fisico quando, durante il suo intervento, il deputato Arturo Scotto (Sel), ironizza sul “capolavoro politico” voluto dal Partito Democratico. Dai banchi dem si alzano insulti e proteste prima, deputati in carne e ossa subito dopo. Scoppia la rissa fra le due fazioni, elette nella stessa coalizione a febbraio 2013, con un bilancio di due “feriti”, fra cui una deputata Sel, che aveva cercato di placare gli animi.

L’arrivo di Renzi. A dare un’occhiata di persona alle scene da stadio arriva a sorpresa, intorno all’una, il Presidente del Consiglio. La linea è quella stabilita da tempo: non cedere sulle riforme, anche a costo di votarle a colpi di maggioranza. Matteo Renzi prende posto al centro dell’emiciclo e rivolge un sorriso di sfida ai deputati 5 stelle: a questo punto tutti hanno capito come, a prescindere dalle proteste, finirà la partita. I numeri ci sono, il Ddl vedrà la luce comunque.

L’Aventino e i sorci verdi. La conferenza organizzata venerdì è un’istantanea del momento. In un’unica foto, dietro un unico tavolo Forza Italia, Lega, Nuovo Centrodestra, Fratelli d’Italia e Sel. La frase-simbolo, ripresa poi da anche da Renzi, è affidata all’azzurro Renato Brunetta: “Vedrete i sorci verdi”. La conferma, nel caso ce ne fosse bisogno, dell’archiviazione del patto del Nazareno.
Anche all’interno del Partito democratico il clima non è sereno. Da Pier Luigi Bersani a Rosy Bindi, alle frange più bellicose del partito, il decisionismo renziano non piace. Ma il Presidente-Segretario ha una battuta per tutto: “che siano nostalgici del patto del Nazareno“?

Un San Valentino per pochi intimi. Nella notte fra venerdì e sabato, quando la mezzanotte di San Valentino è già suonata e a Sanremo il festival sta per concludersi, va in scena l’atto finale. La votazione va avanti in uno scenario post apocalittico: la compagine dem, vista dall’alto, sembra una macchia di vegetazione in un deserto. Intorno solo scranni vuoti. Le opposizioni escono dall’aula in segno di protesta, lasciando fra i banchi soltanto pochi alfieri, incaricati di controllare la regolarità del voto.

Fuori dall’aula anche i democratici Pippo Civati e Stefano Fassina, notoriamente allergici ai richiami all’ordine per ragioni di partito. Alle 2.56 l’esame dei singoli articoli si conclude. Governo e maggioranza esultano, aspettando il voto definitivo, probabilmente a marzo.

I nuovi equilibri. Il Ddl sulle riforme non cambierà soltanto la Costituzione. Assetti ed equilibri escono più chiari, alcuni con le ossa rotte, dalla Camera dei Deputati. Cala il sipario sul patto del Nazareno. Dal braccio di ferro con un avversario quarant’anni più giovane, Silvio Berlusconi esce ridimensionato oltre ogni immaginazione. Capo di un’opposizione minore che minaccia, ma non ha più il potere contrattuale che le aveva permesso di tornare nella politica che conta. L’ennesimo tonfo, destinato ad eccitare gli animi di Fitto e compagni, sempre più vicini alla resa dei conti.

Anche in casa Pd gli ultimi avvenimenti modificano gli equilibri. L’elezione di Sergio Mattarella aveva rappresentato l’inizio di una possibile nuova fase, una fase in cui la minoranza dem dice la sua e poi vota compatta. Certo, senza mai mettere all’angolo il suo leader, ma quella che aveva eletto il Presidente della Repubblica era una minoranza con una voce. Oggi si allinea per lealtà, per casacca, forse per convenienza. Di certo mettendo poco di suo.

E la vicenda diventa un selfie perfetto del rottamatore. La politica spregiudicata, in cui mettere la faccia, è sempre stata la sua cifra. Nello strappo parlamentare di questi giorni non c’è soltanto il piede sull’acceleratore, c’è la lucida volontà di non fermarsi, anche a rischio di travolgere tutto.Travolgere l’ostruzionismo esasperato, certo, in molti casi finalizzato a logiche di partito più che di ideale. Ma anche il dissenso e il confronto che il voto di una legge costituzionale dovrebbe necessariamente consentire. Soprattutto se la maggioranza che vota non è direttamente proporzionale al numero di elettori , ma frutto di un premio di maggioranza, dichiarato tra l’altro incostituzionale.

Sono strumentali i paragoni a dittature e regimi citati a caso. Ciononostante l’impressione è che, per il Matteo nazionale, i principi democratici siano soltanto uno, e non il principale, fra gli elementi in gioco. L’esigenza è fare in fretta, anche a costo di chiudere i deputati in un conclave notturno.
Perché il tempo, si sa, è sempre stato nemico delle riforme. E Renzi sulle riforme ha puntato tutto, sul non cedere all’ostruzionismo ha puntato tutto, sul riuscire dove gli altri hanno fallito ha puntato tutto.
E il fair play non vale la faccia.

(fonte immagine: http://www.panorama.it/)

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