Guida al Jobs Act
Dal 1° marzo stop all’articolo 18 e ai co.co.pro, maternità per le partite Iva, congedi parentali più lunghi, nuovi ammortizzatori sociali: tutte le novità della riforma del lavoro
“Oggi è una giornata storica. Rottamiamo i co.co.pro. e l’articolo 18“. Con queste parole Matteo Renzi ha presentato nel pomeriggio di venerdì i decreti attuativi del Jobs Act, ultimo capitolo prima dell’entrata in vigore della legge.
Fra i provvedimenti, più o meno noti: l’abolizione dell’articolo 18 e dei co.co.pro., l’introduzione del contratto a tutele crescenti, i nuovi ammortizzatori sociali per chi perde il lavoro, l’estensione del congedo parentale fino ai primi sei anni del bambino.
Ecco, nel dettaglio, cosa cambia.
Stop alle collaborazioni. Dal 1° marzo 2015 stop alle nuove collaborazioni a progetto e collaborazioni coordinate continuative. Quelle già esistenti saranno trasformate automaticamente in contratti subordinati a tempo indeterminato dal primo gennaio 2016.
Rimangono però attive altre forme di lavoro precario come il lavoro interinale, quello a chiamata e i cosiddetti voucher.
Grazie agli sgravi fiscali, comunque, il contratto di lavoro subordinato diventa il modo più conveniente di assumere nuovo personale.
L’addio all’art. 18 e il contratto a tutele crescenti. Ai contratti a tempo indeterminato stipulati dal 1° marzo in poi non sarà più applicabile l’articolo 18. La norma cancellata dal governo riguardava le aziende con più di quindici dipendenti. In caso di licenziamento ingiusto per cause economiche o disciplinari, il lavoratore poteva ricorrere in tribunale e ottenere il reintegro sul posto di lavoro.
Il Jobs Act sostituisce al reintegro il cosiddetto contratto a tutele crescenti. In realtà, più che di tutele, sarebbe corretto parlare di indennizzo crescente. Infatti, il lavoratore licenziato ingiustamente per cause economiche o disciplinari potrà chiedere al giudice un risarcimento pari a due mensilità per ogni anno di servizio. In ogni caso l’indennizzo non potrà essere inferiore a due stipendi e superiore a ventiquattro (massimo 6 mensilità nel caso di azienda di piccole dimensioni).
Se il fatto contestato al lavoratore è inesistente rimane fermo il suo diritto ad essere reintegrato sul posto di lavoro e a percepire gli stipendi persi a causa del licenziamento.
Secondo la nuova legge il datore di lavoro può proporre al lavoratore una conciliazione economica. La somma offerta, pari ad una mensilità per ogni anno di lavoro (minimo due e massimo diciotto), è esente da tasse.
Il licenziamento discriminatorio. Molta confusione è stata fatta sul licenziamento discriminatorio. Cosa succede se si viene licenziati a causa di motivi religiosi, sessuali, politici, o anche a causa di una gravidanza?
In questo caso le regole non cambiano: a prescindere dal numero di impiegati dell’azienda, tutti hanno diritto a ritornare sul proprio posto di lavoro e a ricevere un indennizzo non inferiore a cinque mensilità.
Il lavoratore discriminato può decidere in alternativa di lasciare il proprio impiego: in questo caso gli spetta un indennizzo pari a quindici stipendi.
Il licenziamento collettivo. Il punto probabilmente più critico è quello sui licenziamenti collettivi. Secondo la legge precedente il datore di lavoro deve ridurre il personale in base a criteri che tendono a tutelare le categorie più deboli, pena il reintegro dei lavoratori licenziati.
Il Jobs Act equipara i licenziamenti collettivi a quelli individuali, prevedendo anche in questo l’indennizzo.
Un colpo di mano su cui la Commissione Lavoro della Camera aveva espresso parere negativo, ignorato a stretto giro dal Governo.
Il demansionamento. Un altro passaggio dolente riguarda il demansionamento, che dal primo marzo potrà essere deciso unilateralmente dal datore di lavoro, fermo restando l’obbligo di mantenere invariato il salario.
La norma lascia spazio a più di un dubbio. Nel peggiore degli scenari la possibilità di cambiare mansione ad un dipendente in modo arbitrario rischia di legittimare il mobbing, già estremamente difficile da dimostrare in giudizio.
I nuovi ammortizzatori sociali. Per chi perde il lavoro il Jobs Act istituisce il NASpI (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego). Si tratta di una riproposizione dell’ASpI varato dal Governo Monti nel 2012, con alcuni correttivi.
Al lavoratore disoccupato, come già succedeva con l’ASpI, viene
corrisposto il 75% dell’ultimo stipendio fino ad un massimo di 1.300 euro. A partire dal quarto mese la cifra viene progressivamente ridotta del 3% ogni mese, fino ad un massimo di 18 mesi.
La normativa precedente prolungava la somma iniziale fino al sesto mese, per poi ridurla del 15%.
Calcolando quanto si percepisce in un anno, la nuova normativa corrisponde al lavoratore poco meno della precedente.
In compenso permette a chi intenda aprire un’attività lavorativa autonoma o un’impresa individuale di richiedere la liquidazione anticipata dell’intera somma.
Inoltre introduce la DIS-COLL, indennità molto simile alla NASpI, ma riferita a chi perde il lavoro a seguito di una collaborazione continuata e continuativa.
In via sperimentale per l’anno 2015, la nuova legge prevede anche l’assegno di disoccupazione (ASDI), corrisposto nel caso in cui, al termine della NASpI, il lavoratore non abbia ancora trovato un nuovo impiego. L’importo dell’assegno corrisponde al 75% dell’ultimo NASpI e dura massimo sei mesi.
La novità probabilmente più interessante fra i nuovi ammortizzatori sociali è il contratto di ricollocazione.
Si tratta, in buona sostanza, di un’assistenza intensiva nella ricerca di un nuovo lavoro. Ad ogni disoccupato, dopo averne tracciato il profilo, viene assegnata una somma detta “dote individuale di ricollocazione”. Questa somma dovrà essere spesa presso agenzie convenzionate, anche private, alle quali spetterà la ricerca del lavoro. Il voucher sarà consegnato soltanto a obiettivo raggiunto, stimolando così la concorrenza tra agenzie.
Per evitare che vengano ricollocati soltanto i lavoratori più appetibili, lasciando fuori ad esempio i più anziani, la cifra sul voucher è commisurata alla difficoltà di ricollocazione.
Congedi parentali e adozioni. Nella nuova legge trovano spazio alcune nuove disposizioni sulla compatibilità fra lavoro e famiglia.
L’indennità di maternità viene estesa anche ai lavoratori autonomi, sia padre che madre.
Inoltre, in caso di adozione, i lavoratori godono degli stessi diritti di chi ha un figlio naturale. Anche il congedo parentale viene allungato da otto fino a dodici anni.
Si estende dai primi tre ai primi sei anni di vita del bambino il congedo parentale retribuito al 30%.
Finora il Jobs Act ha incassato il plauso dell’Ocse e il pollice verso di sindacati e minoranza Pd. Al netto delle polemiche, la legge sembra strizzare l’occhio alle richieste di Confindustria, da sempre favorevole a rapporti di lavoro meno vincolanti.
La riforma di Renzi, sacrificando un caposaldo come l’articolo 18, va esattamente in questa direzione.
La legge fa più di una piega. In molti passaggi è mancato il coraggio di andare fino in fondo, ad esempio sono troppe le forme contrattuali ancora utilizzabili. In altri quel coraggio si è abbattuto su diritti e conquiste, come nel caso del demansionamento o dei licenziamenti collettivi.
Tuttavia, non si può non tener conto dell’effetto in cui il premier spera fortemente.
Un alleggerimento delle norme che disciplinano l’uscita dal mondo del lavoro, accompagnato comunque da un contratto che estende ai precari diritti essenziali (malattia, maternità, ferie), potrebbe rimettere in moto la macchina delle assunzioni.
Il governo in sostanza baratta posti di lavoro più sicuri con posti di lavoro più numerosi. A condizione che Confindustria, ormai accontentata, faccia la sua parte.