Terrorismo, le origini della paura
Da qualche settimana si guarda con timore alle coste settentrionali del continente africano. L’avanzata jihadista dell’Isis in Libia richiama solo ora un’attenzione mancata per troppo tempo e che in realtà vanta origini lontane
Minacce, rapimenti, uccisioni, terrorismo. La propaganda mediatica dell’ISIS è dannatamente accurata e ben focalizzata sull’obiettivo: far breccia sulle coscienze occidentali e dar fuoco alla miccia della paura generalizzata ed incontrollata. “Non passiamo dall’indifferenza all’isteria”, uno dei tanti tweet del Presidente del Consiglio Matteo Renzi non è stato poi così errato nel voler porre un freno al fenomeno della esplosa preoccupazione alimentata principalmente da alcuni media italiani e da altrettanti numerati politici seduti in Parlamento.
La Libia, così come la Nigeria, la Somalia, il Mali, il Camerun ed altri Paesi e territori africani non si sono svegliati una mattina con le bandiere dell’integralismo islamico piantate sulla loro terra. Il girotondo dei terroristi è radicato e pulsa tra quei popoli da anni, con altro nome, altra forma o, più semplicemente, con altre modalità di azione: non c’è nulla di attualmente nuovo, né tanto meno isolato nei fatti del nord e centro Africa. Il passato e la conformazione sociale, religiosa e tradizionale di queste popolazioni, è alla base di tutto.
Questa storia fatta di realtà, si osserva proprio dal Paese a noi più vicino geograficamente – oltre che storicamente, per via del suo passato di impronta italiana.
La Libia è divenuta indipendente il 24 dicembre 1951 dopo decenni di colonialismo italiano, iniziato nel 1911 e seguito da un periodo di occupazione militare franco-britannica (1943-51). La figura istituzionalmente imponente di Muammar al-Gheddafi fece la sua altrettanto possente comparsa con il colpo di Stato del settembre 1969 e, da lì, quel potere strappato con la forza non lo lasciò più fino alla sua uccisione avvenuta il 23 ottobre del 2011, epilogo di un conflitto civile scoppiato nel febbraio di quell’anno dopo le ampie proteste popolari battezzate con quell’epiteto da libri di storia: Primavera Araba. La repressione inaccettabile del leader libico portò la NATO ad intervenire militarmente, decisione ancora oggi motivo di dubbi e discussioni.
Nel medesimo anno l’Assemblea Generale dell’ONU riconosce il Consiglio Nazionale di Transizione come organo di governo ad interim in Libia. Quello, fu solo l’inizio del crollo politico di un grande territorio e del suo popolo. Gli attriti tra le diverse comunità hanno dato vita a due stati e due governi in un Paese eterogeneo con un mosaico di etnie da far comprendere la complessa ricerca di equilibrio interno. Libici 57%, Egiziani 8%, Berberi 7%, Sudanesi 4%, Tunisini 3%, ed altre minoranze per 21%.
Tra la percentuale egiziana sono state sottratte la prima cavia, umana prima e mediatica poi, per mano del Daesh (ISIS) in Libia: 21 cittadini egiziani copti decapitati sulle rive del Mediterraneo. Il Mare Nostrum, le acque delle navi e dei barconi, il mare che separa l’Europa dalla furia jihadista dell’ISIS. La reazione aeronautica è fatta di bombardamenti nel cuore del Daesh, precisamente nella città di Derna: azione pubblicizzata come imminente risposta vendicativa dal governo egiziano. Derna come roccaforte di estremisti e terroristi. L’ideologia salafita jihadista da quella città si è diffusa già da anni nel resto della Libia, soprattutto tra le tribù conservatrici.
La totale fragilità dell’autorità centrale e l’ampiezza dei confini hanno esaltato le euforiche intenzioni di un gran numero di attivisti provenienti da Tunisia, Algeria, Yemen, Sudan, ma anche dall’Occidente e da Paesi africani come Mali, Niger e Ciad. Le inchieste e le informazioni segrete dei servizi di intelligence britannici, l’aumento degli sbarchi di migranti provenienti proprio da quelle sponde africane, la confusione diplomatica e le frivole discussioni tra partiti italiani divisi dalle fobie e dalle speranze che siano altri ad agire al posto nostro sono tutte reazioni sconnesse derivanti da una paura esistente ma che richiede dosaggio istituzionale ed internazionale.
Stesso continente, diverso paese. In Nigeria quasi quotidianamente prosegue l’avanzata integralista di Boko Haram. Attentati che si susseguono e rapimenti di giovani e giovanissime rastrellate per aumentare la presa di potere sociale e dare il senso del vuoto politico. La Nigeria è stata colonia britannica, è divenuta indipendente nell’ottobre del 1960 e nel corso degli anni si è mantenuta profondamente cosciente del significato della parola “guerra”, essendo stato teatro di conflitti civili e militari per lunghi anni. Dal mese di maggio 2014 il presidente Jonathan Goodluck ha dichiarato lo stato di emergenza negli Stati del Borno, Adamawa e Yobe. Una democrazia, quella nigeriana, di pura immagine; una semplice formalità che fa gioco al ruolo centrale svolto dalle forze armate nella politica del Paese.
Con 160 milioni di abitanti, la Repubblica Federale di Nigeria è il Paese più popoloso dell’Africa e rientra nella classifica di quelli più popolosi al Mondo. Come nella quasi assoluta maggioranza dei territori africani, in Nigeria la popolazione si contraddistingue per le diverse etnie, religioni e status economici dominanti. La competizione per l’accaparramento e la gestione delle risorse simboliche e materiali (l’oro nero) all’interno di ogni stato federato si macchia di una connotazione etnica, che replica la contrapposizione in atto fin dal periodo coloniale tra etnie definite originarie all’interno di un certo contesto regionale e altre che viceversa erano considerate immigrate.
I principali gruppi etnici sono: Yoruba 17,5%, Hausa 17,2%, Ibo 13,3% e Fulani 10,7%. Ulteriore spaccatura è quella che sa di sacro e di fede. Nel nord della Nigeria la popolazione è in gran parte costituita da Hausa e Fulami e prevalentemente musulmana, mentre al sud con una maggior presenza di Yoruba e Ibo, si professa la religione cristiana.
Le due religioni negli ultimi anni sono divenute arma di lotta e rivendicazione. Tra il 1999 e il 2002 la Sharia (legge islamica) è ufficialmente stata introdotta nell’ordinamento giudiziario di 12 stati del nord; Bauchi, Borno, Gombe, Jigawa, Kaduna, Kano, Katsina, Kebbi, Niger, Sokoto, Yobe e Zamfara.
In Nigeria, l’Islam ha sempre rappresentato la casa ed il rifugio dai mali della società corrotta per molti cittadini, l’islamizzazione è cresciuta già nel 19° secolo, quando la regione fu il centro del Califfato di Sokoto.
La posizione governativa è sempre stata contraria all’introduzione della Sharia ma, pur di evitare il caos, ha silenziosamente girato le spalle a quegli stati che in ogni caso rivendicavano il loro diritto all’autonomia giurisdizionale.
Tensioni ed accuse reciproche che parlano di religione come mezzo più evidente e diretto per poter giustificare l’odio e la violenza. Gruppi estremisti cristiani e musulmani, ai quali si aggiungono ostilità tra i gruppi islamisti e le confraternite Sufi. I Confini della Nigeria toccano anche la terra del Camerun, paese che negli ultimi mesi è anch’esso preso d’assalto dagli attacchi di Boko Haram.
Centinaia di vittime della violenza islamica radicale nell’ex colonia divisa tra Francia e Regno Unito e questo storico legame è stato rivendicato dagli stessi militanti integralisti e dal loro leader jihadista Abubakar Shekau, uomini che minacciano direttamente i Paesi delle scelte atee quali Stati Uniti, Francia ed Italia.
Nonostante la guida del Paese sia ancora nelle mani del partito RDPC, terremoti interni e movimenti secessionisti fanno tremare l’ovest anglofono e la penisola di Bakassi ,dove agiscono diversi gruppi ribelli responsabili di attacchi armati e rapimenti.
Definita come la tana dei pirati, la Somalia brucia da anni in un fuoco di instabilità alimentato dall’assenza di potere centrale. Uno Stato Fallito per eccellenza, nel quale varie entità sociali si litigano territori, autonomie e potere. Il caos somalo è esplosione di una marcata struttura clanico-tribale, elemento ultimo di una scissione geografica e coloniale che ai tempi del dominio europeo vedeva il Somaliland, compagine nord-occidentale, sotto il controllo britannico, e poi la Somalia storica di invadenza italiana.
I clan manovrano qualsiasi forma di potere, modellano la società in gruppi e sottogruppi che causano la lacerazione di uno Stato e solleticano l’appetito di diversi predatori. I pirati padroneggiano sul Golfo di Aden, fondamentale nodo del commercio internazionale, mentre forme integraliste islamiche premono sui diversi e ramificati clan.
Il terrorismo islamico, che si estende su di una rete globale, poggia comodamente le sue radici sulla realtà somala, base ideale per la sua diffusione.
Il legame tra Al-Qaeda ed alcune fazioni somale, in primis i “giovani” degli al-Shabaab, aumenta spropositatamente. Il movimento politico islamista ha come fine ultimo l’instaurazione di uno Stato fondato sulla legge islamica della sharia. Gli attacchi firmati dagli Shabaab, proseguono senza limiti in quei luoghi affollati simbolo di aggregazione. Le ultime notizie raccontano di vittime dell’esplosione di un auto-bomba in un hotel della capitale Mogadiscio, nel quale è rimasto vittima il ministro de trasporti e due parlamentari ed è rimasto ferito il vice premier.
Questo susseguirsi di avvenimenti critici interni a questi Paesi, avviene costantemente anche nei territori fratelli del Mali, del Niger, del Ciad. Lo “sconfinare i confini”, accanirsi militarmente contro il pericolo comune chiamato terrorismo e che in questi casi si vanta essere di matrice islamica anche se, inutile sottolinearlo, tutto questo non ha nulla a che fare con l’Islam, con la fede, con il Dio che si prega.
Sfruttare l’instabilità che avvolge quest’area del Mondo, è decisamente un abile tattica della galassia terroristica. Con il collasso statale o anche solo per il bilico “normo-convivere” di una società dalle varie forme etniche-claniche-tribali, il margine per l’affermazione per quei contropoteri senza territorio nè riconoscimento, risulta forte e di grande leva motivazionale proprio in questi contesti.
L’Islam, così come il Cristianesimo e la religione Ebraica, appartiene a quelle che Arnold Toynbee definiva “Grandi Religioni” (1993) che “affermano” la vita; ciò comporta una perenne ricerca nel saper collegare soddisfazione spirituale ad una soddisfazione materiale.
Questo è ciò che la fede spera e richiede, questo è ciò che viene distrutto dal terrorismo.