Myanmar, la lotta per un’istruzione democratica
La riforma del sistema educativo in Myanmar ha portato a scontri ed arresti: governo ed attivisti sembrano essere lontani da un accordo
di Sara Gullace
Sono giorni difficili per gli studenti birmani e per l’intero settore istruzione del Myanmar. I rapporti con il governo sono andati deteriorandosi con il passare delle ore fino ad arrivare all’uso della forza da parte di polizia e militari sui dimostranti la scorsa settimana. Assalto che si è riprodotto anche nella giornata di ieri. Oggetto di scontento è la riforma educativa proposta a fine 2014.
Una legge contestata dalla nascita: erano stati molti i detrattori all’interno dello stesso Parlamento, tanto che il Presidente Thein Sein aveva presentato ben 25 modifiche. Tra quelle respinte immediatamente dall’esecutivo vi era la richiesta di rivedere i tempi di attuazione della riforma: il Presidente aveva proposto il completamento a lungo periodo, entro il 2027. Troppo in avanti, per il Parlamento, che ha rimarcato il ritardo del piano educativo del Paese rispetto agli standard internazionali.
Un tassello delicato e di diretto interesse del Parlamento, è l’organo di controllo dell’Istruzione Superiore: la nuova riforma prevede che i membri supervisori siano nominati direttamente dal Parlamento. Contestato, non c’è stata possibilità di modifica. I detrattori della riforma vorrebbero un sistema educativo libero dal controllo statale, autonomo e democratico: per questo, immediatamente dopo l’approvazione della legge, è stata richiesta una revisione.
Non ascoltate, le richieste si sono presto trasformate in proteste: a metà Gennaio gli studenti si erano riversati nelle piazze delle capitale Mandalay. Un mese dopo, la situazione sembrava risolta: dopo giorni di trattative, governo, parlamentari, leader studenteschi e il Nner (Rete Nazionale per le Riforme Educative) avevano trovato un accordo. Il governo aveva accettato di rivedere alcuni punti della riforma educativa proposta lo scorso autunno così come richiesto dalla controparte. Pochi giorni dopo, invece, l’esecutivo ha rivisto la proprie posizione presentando un’ulteriore bozza che scontenta studenti, professori ed attivisti democratici.
Rabbia e frustrazione hanno dato il via alla seconda ondata di proteste. E questa volta, gli studenti si sono ritrovati al fianco insegnanti e simpatizzanti, solidali nell’intraprendere un “rally” di dissenso da Mandalay a Yangon, passando per le province rurali. Una marcia che attraversa il Paese da settimane e che, a seguito di minacce e tensioni, ha portato ad una trentina di arresti lo scorso 5 marzo.
Le parole chiave di questi giorni di marcia sono state decentralizzazione e investimento. Gli obiettivi principali riguardano l’autonomia delle Università, i criteri di ingresso, il diritto di costituire sindacati di studenti e insegnanti, in contrasto con l’art. 4 della nuova legge che vieta l’attività politica, l’impegno fino al 20% del budget nazionale nell’istruzione e la revisione di materie e curricula risalenti all’epoca della dittatura.
Altro motivo di tensione è stata la richiesta di svolgere le lezioni nelle diverse lingue locali, per facilitare l’apprendimento dei bambini delle minoranze etniche che, secondo gli attivisti, sarebbe più completo se effettuato nella lingua nativa. I nazionalisti si oppongono adducendo il pericolo di una rapida diffusione del fondamentalismo arabo nel Paese.
Dalla caduta del regime dittatoriale, nel 2010, il Myanmar ha portato avanti, con costanza, una serie di riforme per ristrutturare l’intero sistema socio-economico e politico. Questa del sistema educativo, come visto, coinvolge entità diverse con interessi contrastanti: se verrà dato privilegio ai fini politici, il Paese avrà certamente un ritardo educativo; a prescindere che la riforma venga completata nel 2027 o in un solo quinquennio.