Simonetta Tassinari e “La casa di tutte le guerre”
Dopo “La notte in cui sparì l’ultimo pollo” e “Mexìca. La bambina serpente”, Simonetta Tassinari torna in libreria con la Romagna dei mitici anni ’60
di Giulia Ciarapica
su Twitter @GiuliaCiarapix
Quando a raccontare una storia è la voce innocente di una bambina di undici anni, anzi, scusate, di dieci anni e mezzo, tutto – compresi i segreti, i rancori, gli odii e perfino le vendette e le ripicche, tutto, appunto – assume una forma quasi caricaturale e l’atmosfera si colora delle tinte pastello degli anni ’60.
Ma dietro la giocosità delle parole di questa bambina di dieci anni e mezzo – e siate precisi perché lei è della fine di dicembre – si cela un’altra terrificante caratteristica, tipica di tutti i bambini di quell’età: la schiettezza, e soprattutto la voglia di sapere “perché”.
È quello che farà Silvia Frassineti, la giovane protagonista dell’ultimo delizioso romanzo di Simonetta Tassinari, La casa di tutte le guerre: un passato da scoprire, una vita da riordinare, troppi animi da riappacificare.
Sembrerebbe un’impresa ardua per una ragazzina che si accinge, semplicemente, a vivere la sua ultima estate da “bambina”, con un piede già nell’età dell’adolescenza, fatta di capelli a caschetto stile Caterina Caselli, vestitini corti e colorati e stivaletti bianchi di ciré. Una ragazzina della Bologna bene, che passerà le vacanze estive da una nonna inglese distinta ed elegante, una signora Mary Frances stimata e rispettata da tutta la cittadina di Rocca.
Un padre e una madre premurosi, una nonna attenta ed amorevole, una governante – la Bea – un po’ rompiscatole e pignola, ma pur sempre dolce, Laura, Pietro e Momo, gli amici di sempre con cui andare a pattinare al parco, e poi la prozia Prospera, il dottor Tinti Delay, la signora Clementina e tutti gli abitanti di Rocca.
I personaggi sembrerebbero al completo, ma manca qualcosa. Qualcosa che a Silvia “appartiene” in modo irrimediabile, qualcosa di irrisolto, incompiuto e selvaggio da cui la signorina Frassineti – tutta pizzi e merletti – sembra essere al contempo attratta e respinta. Un qualcosa che ha un nome e un cognome, anzi, due nomi e un cognome: Tito e Lisa Bandini.
Padre e figlia, Tito e Lisa sono le anime nere del borgo, i condannati e gli esclusi, gli emarginati che non cercano l’integrazione o l’approvazione a tutti i costi. Belli e difficili, sporchi e sudici, ma al contempo geniali e svelti.
Silvia avverte un legame profondo con questa bambina dal prendisole scolorito, dai sandali logori e dalle mani, dal collo e dal viso perennemente sporchi. È come se Silvia sapesse che la Lisa è in qualche modo avvinghiata a lei. Picchiata, respinta, allontanata, Silvia non demorde: vuole conoscere Lisa, vuole ricondurla alla realtà, trascinarla nel mondo dei vivi.
Lisa è scontrosa, aggressiva, picchia gli altri bambini e sputa a terra, dice parolacce ed insulta perfino i maestri, va male a scuola, vive di provocazioni e raccoglie solo disprezzo e sguardi atterriti. Eppure è bella, tremendamente bella: i lunghi ricci biondi le cadono sul viso di porcellana, i grandi occhi azzurri mandano scintille di luce e fiamme di vivace intelligenza.
Lisa è grande, i suoi undici anni sono grandi, troppo grandi per lei. Il peso di un’esistenza più tenace di ogni morte, il calvario di una breve vita già all’insegna dell’odio, l’hanno colpita irrimediabilmente.
I colori tenui dell’infanzia sono scivolati sotto una coltre di cupezza e di miseria, la maturità emotiva si è fatta strada a suon di sofferenze, e la vergogna, che nasce dall’ingenua timidezza di una bambina di dieci anni e poco più, è stata spazzata via dall’arroganza, arma necessaria a difendersi dai colpi della cattiveria.
Eppure qualcosa rimane ancora in Lisa, che denuncia un profilo artistico in erba e che ritaglia un tunnel di luce all’interno di un’esistenza buia: il disegno. La piccola selvaggia ama disegnare e le riesce divinamente, propensione naturale di una grande – e purtroppo celata – ricchezza interiore.
La nobiltà dei tratti di quella piccola violenta ribelle affascina tremendamente Silvia, al punto da spingerla a farsi ripetutamente avanti – contro il divieto assoluto della nonna e della Bea di avvicinarsi a quella famiglia, isolata da tutti i compaesani – per poter conoscere i Bandini.
La preoccupazione della signora Mary Frances, che troppo ha da nascondere e da confessare, ma nulla rivela, accompagnerà il lettore che, insieme a Silvia, cercherà di scoprire la verità attraverso quei pochi elementi di cui la bambina dispone: colori, tavolozze, pennelli e lettere, tante lettere, lettere d’amore. Una soffitta piena di segreti, che sbocceranno tra le mani di una innocente curiosa.
Un romanzo coinvolgente e delicato, scritto da una penna elegante e fresca, La casa di tutte le guerre riesce nell’intento di appassionare il lettore, riportandolo alle atmosfere scoppiettanti dei mitici anni ’60.
Uno scenario ideale, quello di una Romagna accogliente e calda, per dare voce ad una bambina che, seppur con i dovuti distinguo, ricorda la Bambina (Francesca) del romanzo autobiografico di Francesca Duranti, (“La Bambina“, LaTartaruga 1976, Rizzoli 1985).
La giovane presenza di Silvia regala un tocco di originalità ad un testo che propone gli elementi classici del romanzo sul passaggio tra l’infanzia e l’età adulta, senza tralasciare di rievocare i lineamenti di un passato storicamente vivace, descrivendone sapori, colori, odori e particolarità tipiche dell’ambiente emiliano-romagnolo.
Una delizia da gustare, pagina dopo pagina, fino alla fine.
La casa di tutte le guerre
Simonetta Tassinari
Corbaccio, 2015
pp. 243