Siria, quattro anni dopo
L’impasse dell’ONU, i tentennamenti degli USA, i veti di Putin, l’ISIS: il drammatico bilancio in Siria, dove una manifestazione di piazza è sfociata in un conflitto che va avanti da quattro terribili anni
Il 15 marzo del 2011 la popolazione siriana scendeva in piazza per manifestare contro il proprio presidente, Bashar al-Assad. I manifestanti chiedevano riforme politiche in chiave democratica e, dunque, l’abolizione di quello Stato di Emergenza entrato in vigore nel lontano 1963, quando il generale Hafez al-Assad (padre di Bashar) prese il potere con la forza instaurando un regime dittatoriale – che oltre all’assenza di una regolamentazione costituzionale comportava enormi limitazioni alla libertà di espressione, autorizzando arresto e tortura nei confronti dei dissidenti.
Il popolo manifestava, l’esercito lealista rispondeva con il piombo: questo l’iter delle prime fasi della rivolta – la cui miccia si innescava puntualmente il venerdì, dopo la preghiera e la veglia dei compagni caduti nei giorni precedenti in nome della libertà e della democrazia. Nessuno poteva prevedere che una manifestazione di piazza sarebbe sfociata in un conflitto di così ampia portata, come oggi lo conosciamo.
Nell’estate del 2011 i dissidenti decisero di organizzarsi militarmente e politicamente: nacquero l’Esercito Siriano Libero (ESL) e il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), organismi di cui indubbiamente era imprescindibile dotarsi per far fronte al bagno di sangue avallato dal presidente – visto e considerato il fallimento dei primi colloqui di pace e la scarsa capacità decisionale della Comunità Internazionale: la situazione, confusa e drammatica, cominciava ad assumere i contorni della guerra civile.
Il massacro di Hula (25 maggio, 108 morti, 34 dei quali bambini) e la strage di Hama (6 giugno, circa 90 vittime) gli episodi più violenti del 2012. La spinosa questione relativa all’utilizzo accertato delle armi chimiche da parte del regime di Assad, sembrava dover condurre a un decisivo punto di svolta nell’estate dell’anno successiva. In mezzo, i ripetuti fallimenti dell’ONU.
Uno degli aspetti più controversi dell’intero conflitto siriano riguarda proprio la fragile capacità decisionale delle Nazioni Unite, sostanzialmente incapace di elaborare una Risoluzione in grado di regolamentare il conflitto o quanto meno arginarlo – ne parlavamo qualche settimana fa con il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury.
La Risoluzione ONU numero 2042 varata dal Consiglio di sicurezza nell’aprile del 2012, auspicava l’applicazione di un Piano di Pace in sei punti che prevedesse tra le altre cose la fine delle violenze, un confronto democratico tra le varie parti in causa, l’invio di aiuti umanitari nelle zone maggiormente colpite dal conflitto, libertà di associazione, espressione, diritto a manifestare pacificamente. L’applicazione di tale piano comportava l’invio di 300 osservatori ONU capitanati dall’ex segretario generale Kofi Annan, il fallimento di esso è stato sancito appena 3 mesi dopo.
Analogo discorso per le due Conferenze di Pace promosse dall’ONU, Ginevra (giugno 2012) e Ginevra 2 (gennaio 2014), che auspicavano un confronto diplomatico tra le parti in casa sotto gli occhi della Comunità Internazionale – e che si sono risolte in un nulla di fatto.
Finalità dell’ONU, la salvaguardia dell’ordine internazionale – in verità piuttosto labile nelle regioni mediorientali, perché si scelga di turbarlo ulteriormente. Principio di non ingerenza, dunque. Nessuna ipotesi di intervento umanitario, almeno fino a quando non è stata violata la Convenzione di Parigi sulle armi chimiche (CWC, 1993) – nell’agosto del 2012 le immagini shock che ne accertavano l’utilizzo indiscusso.
Qualunque ipotesi di intervento umanitario, come si vedrà, sarà da cestinare in partenza: qualunque Risoluzione del Consiglio di Sicurezza verrebbe bloccata dal meccanismo del veto, generalmente sfoderato dalla Cina e dalla Russia di Putin – quel Vladimir Putin che paradossalmente ha anche guadagnato una candidatura al Nobel, per il suo impegno inteso a scongiurare qualunque tipo di intervento armato in Siria. Che poi è lo stesso Putin che giusto qualche mese dopo fomenterà rivolte indipendentiste ai danni di uno stato sovrano quale l’Ucraina. Lo stesso Putin presidente di una nazione in cui gli oppositori politici si dissolvono nel nulla. Ebbene: il Consiglio di Sicurezza è in mano a Putin.
Discorso inverso nel caso degli Stati Uniti, frettolosamente ansiosi di dimostrare la propria volontà di potenza. Lo hanno palesato a più riprese e in particolar modo in occasione della questione armi chimiche, spingendo per un intervento militare incondizionato contro Assad – pur in assenza di certezze, che le armi chimiche le avesse utilizzate il regime o meno.
Poi, il 15 marzo 2015, la notizia clamorosa: gli USA dichiarano di voler aprire un processo diplomatico con Assad. Quello stesso Assad cui erano pronti a dichiarare guerra fino a qualche tempo fa e che oggi, brutale colpo di spugna alla Storia, pare debba essere considerato interlocutore credibile. Quello stesso Assad che sparava alla sua popolazione.
Il Segretario di Stato John Kerry ha dichiarato che “tutti concordano che la soluzione non può essere militare. La soluzione può essere solo politica”. Bisognerebbe fargli notare che questa dichiarazione sembrerebbe quantomeno discordare da sé stesso e che, di fatto, un conflitto in Siria e già in essere. Da circa quattro anni.
Certo, i termini di tale conflitto sono profondamente cambiati da pochi mesi a questa parte, da quando in Siria è subentrata la minaccia ISIS – che altro non è da considerarsi, se non il prodotto delle scelte errate a livello internazionale in Iraq e in Siria. Certo, l’ISIS fa paura. Ma il carnefice Assad non può essere ritenuto interlocutore credibile. Né col Califfo, né col tiranno.
Una risposta
[…] rara. Il primo elemento che emerge è il drastico calo dell’accesso all’educazione. Prima del conflitto, il 94% dei bambini andava a scuola. Oggi la percentuale è precipitata al 60%. Ospitati […]