Dimissioni Lupi, per la questione morale non è #lavoltabuona
Il ministro delle Infrastrutture lascia dopo lo scandalo delle intercettazioni, ma restano in carica sei sottosegretari indagati. Renzi: “Niente dimissioni per avviso di garanzia”
Annunciate giovedì durante la registrazione di “Porta a Porta”, rassegnate venerdì mattina alla Camera dei Deputati. Le dimissioni del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi non si sono poi fatte attendere così tanto. Appena settantadue ore, sottolinea lui stesso durante un discorso non troppo lungo, ma puntellato da accenni di nervosismo. Una rivendicazione orgogliosa, un’istantanea perfetta del clima di eccezionalità che aleggia su Montecitorio.
Non sono indagato. Insieme a “non è penalmente rilevante” è senza dubbio la frase pronunciata più di frequente in questo caso, come in tutti quelli che lo hanno preceduto. Quando invece il proprio nome viene iscritto nel registro degli indagati si preferisce la formula più soft “mi sento sereno”. In ogni caso l’ipotesi delle dimissioni da una carica politica è quasi sempre la prima ad essere scartata.
Ci aveva provato anche il ministro Lupi.
Dopo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche che lo vedono chiedere a Ercole Incalza, superconsulente per le Grandi Opere, “consulenze e suggerimenti” per il figlio Luca, appena laureato, il ministro aveva fatto sapere che sarebbe rimasto al suo posto. Poco importava se dopo la sua telefonata, Incalza aveva coinvolto anche l’imprenditore Stefano Perotti, attivissimo nell’ambito dei lavori pubblici. Lo stesso Perotti, tra l’altro, già in occasione della laurea aveva regalato al giovane Luca un orologio Rolex. Comunque nessuna rilevanza penale.
In fondo così fan tutti e in tutti gli schieramenti. Perché dichiarazioni a parte, l’etica in politica, quella questione morale di cui parlava a suo tempo Berlinguer, eccetto rari casi, in Italia non ha cittadinanza.
Un fatto che, pur non essendo reato, intacchi la credibilità di un istituzione e inneschi dubbi sulla trasparenza di chi lo commette, non dovrebbe essere di per sé motivo sufficiente di dimissioni?
La stessa Costituzione all’art. 54 mette nero su bianco: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore“.
Se ai padri costituenti fosse bastata la fedina penale pulita forse al posto di disciplina e onore avrebbero scritto “senza commettere reati”.
È vero, in questo caso il monito costituzionale sembrerebbe salvo. Le dimissioni ci sono state. Eppure i tre giorni che le hanno partorite a fatica lasciano intendere che siano figlie di equilibri politici e di una ormai risicata capacità contrattuale del Nuovo Centro Destra, più che di una riflessione sulla dignità delle istituzioni.
Maurizio Lupi, non a caso, ha voluto ringraziare il premier Matteo Renzi che, parole sue, “non mi ha mai chiesto di dimettermi”.
Già. Da Palazzo Chigi in questi giorni non si è alzato vento di rottamazione. Il Presidente del Consiglio si è chiuso in un silenzio tombale, scalfito appena dalle indiscrezioni della stampa che lo dipingevano favorevole ad un’uscita di Lupi dall’esecutivo.
E di certo era questo l’esito a cui Renzi puntava fin dall’inizio: isolare il suo ministro, fargli mancare l’appoggio del governo, in modo da spingerlo all’unica decisione possibile.
Eppure, anche se l’obiettivo è stato raggiunto con il minimo sforzo (il Presidente del Consiglio ha definito le dimissioni “una scelta saggia”), da questa vicenda anche l’immagine del Renzi rottamatore e intransigente esce molto ridimensionata, e non solo per questi ultimi fatti.
Ad oggi rimangono in carica nel suo governo ben sei sottosegretari indagati (cinque del PD, uno di NCD). Alle opposizioni che gli hanno fatto notare la disparità fra il trattamento riservato a Lupi e la morbidezza con cui si sono affrontati gli altri casi, il Matteo nazionale risponde con un’intervista rilasciata a Repubblica: “Ho sempre detto che non ci si dimette per un avviso di garanzia. E se parliamo di faccia, le dico con sguardo fiero che per me un cittadino è innocente finché la sentenza non passa in giudicato”.
Sono lontani i tempi del governo Letta, quando l’allora sindaco di Firenze chiedeva a gran voce le dimissioni di Annamaria Cancellieri, coinvolta in un affaire non troppo diverso da quello di Lupi, di Nunzia De Girolamo e dello stesso Angelino Alfano.
Di certo, in un Paese strozzato da connivenze, familiarismi e corruzione, un Presidente del Consiglio che, per usare un’espressione ormai logora, “ci mette la faccia” sarebbe stato un segnale vero di politica nuova.
Viene, poi, da chiedersi cosa sarebbe successo se il ministro in questione avesse fatto parte di una compagine politicamente più forte.
Tanto per fare fantapolitica, come sarebbe andata se NCD non avesse avuto il terrore di perdere il suo posto nella maggioranza o, peggio, di tornare alle urne, e avesse deciso di difendere a spada tratta il suo ministro?
Renzi sarebbe intervenuto? O avrebbe ingoiato il rospo, consapevole che a quel punto l’unica alternativa alle elezioni sarebbe stato un improbabile accordo con un sedotto e abbandonato Silvio Berlusconi?
Nessuno può dirlo con certezza ma l’impressione è che, per chi sperava in un’etica che non scende a patti, neanche questa è #lavoltabuona.
(fonte immagine: http://i.huffpost.com/)