Riforma RAI: Renzi lancia la “rivoluzione” della TV pubblica
Dopo molti tentativi falliti la “nuova” RAI sembra poter ripartire da un CDA riformato, un AD con più potere ma, soprattutto, dalla speranza di toglierla, definitivamente dalle grinfie della politica
di Mattia Bagnato
Alla fine è successo. Dopo anni di acceso dibattito e polemiche incalzanti, la montagna sembra aver finalmente partorito il topolino. Il lieto evento è avvenuto venerdì 27 marzo, quando il Consiglio dei Ministri ha approvato il DDL che potrebbe cambiare per sempre il volto della RAI. Una riforma fortemente voluta da Renzi, con la quale, a detta della maggioranza, sarà possibile rilanciare la televisione pubblica. Una svolta che appare epocale per un’azienda da sempre ostaggio delle logiche di partito e della mala gestione, trasformatasi in un “carrozzone” incapace di offrire un servizio in linea con gli standard europei. Ma come si dice, non è tutto oro quello che luccica. Infatti, prima ancora di vedere la luce, la RAI targata Renzi sembra già dover fare i conti con le prime perplessità.
Matteo Renzi non sembra aver dubbi però, a Viale Mazzini c’è disperato bisogno di un cambio netto di direzione. Una sterzata decisa, che faccia della RAI una vera e propria Media Company dal forte connotato internazionale. Via i partiti e dentro un manager a tutti gli effetti, capace di gestirla come una azienda e che, soprattutto, non debba arenarsi in cavillose trattative politiche o inciampare nei diktat della Corte dei Conti. La nuova Tv pubblica, quindi, dovrà essere in grado di competere con i grandi network mondiali ed esportare fiction all’estero. Per far questo però, secondo il Presidente del Consiglio c’è bisogno di una forte trasformazione della governance.
Sarà proprio da qui, infatti, che dovrà partire la rivoluzione che interesserà la RAI negli anni a venire. Una trasformazione che inizierà dal CDA, portandolo dai precedenti 9 membri, previsti dalla Legge Gasparri, agli attuali 7: quattro scelti da Camera e Senato, uno dal Governo su indicazione del Ministero del Tesoro ed uno dagli stessi dipendenti. C’è di più, però. Infatti, il nuovo CDA potrà anche approvare il piano industriale, quello editoriale e i relativi preventivi di spesa. A questo, poi, spetterà anche il compito di eleggerne il Presidente e l’AD su indicazione sempre dell’esecutivo. È proprio qui, però, che l’asino inizia a “cascare”, spinto dalle critiche di chi sostiene che Renzi voglia sì togliere di mezzo i partiti, ma per infilarci il “suo” Governo.
L’altra novità riguarderà proprio la figura dell’AD, uscita da Palazzo Chigi fortemente rafforzata: avrà infatti facoltà di decidere sulle spese fino a 10 milioni di euro (oggi il limite era fissato a 2,5). Un ampliamento del potere decisionale che segna una netta linea di separazione con l’attuale AD, in quanto, rimanendo in carica per tre anni, avrà ampio spazio di manovra in merito alla gestione finanziaria. L’obiettivo del Governo, quindi, sembra quello di introdurre la figura di un “capo” decisionista, modello Renzi appunto, che non debba sottostare a pressioni politiche. Un compito arduo visto i precedenti casi Biagi & C., evidenziando come la RAI sia bella libera ed indipendente, ma fino ad un certo punto.
Al momento, comunque, il primo nodo da sciogliere è la composizione della nuova Commissione di Vigilanza, tanto criticata dal M5S, sulle quali modalità di selezione regna un preoccupante silenzio. L’unica cosa certa è che sarà un organo con funzioni di indirizzo e controllo. La sorella gemella, cioè, di quella che oggi è la Commissione parlamentare di vigilanza. Una rivisitazione tutta renziana del principio del Balance of Power che, a quanto si dice, dovrà servire per dare l’impressione che qualcosa possa bilanciare il ruolo che la riforma attribuisce all’esecutivo.
Così, mentre Renzi cerca di dribblare le accuse di voler “mettere le mani sulla RAI”, sottolineando come per questo basterebbe solo lasciare in vita la Legge Gasparri, da Palazzo Chigi arriva la ristrutturazione dell’offerta televisiva che porterà alla nascita delle c.d. Newsroom. Di sicuro due. Una accorperà TG1, TG2 e Rai parlamento, un’altra unirà TG3, Rainews 24 e i vari TGR, mentre la terza, con tutta probabilità, sarà una rete di cultura senza spot che dovrebbe ridare alla RAI quella dimensione educativa dentro cui è nata 70 anni fa. Qui però sembra aprirsi l’ennesimo fronte caldo sulla questione delle nomine. Bianca Berlinguer, oggi a capo di Rai3, sembra poco entusiasta dall’idea dell’accorpamento voluto da Renzi e potrebbe rivelarsi un intoppo non da poco.
Come dicevamo in apertura, però, il pericolo è dietro l’angolo. Infatti, prima ancora che il testo del DDL uscisse allo scoperto, la minoranza Pd aveva già pronta la contromossa. Una personale versione del DDL presentato da 12 Senatori che è già stato ribattezzato “modello alla tedesca” (CDA e organo gestionale allarganti) e che, in perfetto stile blitzkrieg, può rovinare i sonni del presidente-segretario, lanciato da quella Camera alta dove i numeri non sono così rassicuranti.
A preoccupare Renzi ci si sono messi anche i sindacati di categoria e le opposizioni. I primi, delusi da quella che hanno definito “una rivoluzione mancata”. Le seconde, invece, appaiono oltre modo divise, con una Forza Italia moderatamente a favore del modello S.p.a. proposto da Renzi, che invece non piace affatto né al M5S né tanto meno a Sel, più incline alla versione “dem”.
Avvisaglie, queste, di un percorso legislativo che appare tutto tranne che una “passeggiata di salute”, riproponendo le stesse problematicità che da sempre accompagno qualsiasi tentativo di riforma della Tv pubblica. Il tutto proprio mentre la Consob stoppa l’Opa Ei Towers su Rai Way, nel tentativo di fare chiarezza su un’operazione che sembra presentare qualche opacità. Viene da chiederci, quindi, se Renzi sarà in grado di aggirare anche questo ostacolo, portando a casa la più storica delle riforme che la Seconda Repubblica abbia mai visto.
(Fonte immagine: http://www.key4biz.it/)