Mommy, cos’è normale?
Film-rivelazione del festival di Cannes, Mommy racconta una storia difficile di amore e incomprensione tra madre e figlio. Meritato premio alla regia di Xavier Dolan, offre infiniti spunti di riflessione sulla malattia, la diversità e l’amore
Passato eccessivamente sotto silenzio, come la maggior parte dei film francesi, e premiato invece meritatamente a Cannes per la “miglior regia” di Xavier Dolan, parliamo di Mommy. Pellicola che ho recuperato grazie ad un’iniziativa del Cinema D’Azeglio d’essai di Parma, legata ad una rassegna sui disturbi giovanili, ed ultimo appuntamento culturale legato alla comprensione come informazione.
Storia tragicomica, o meglio “comi-tragica” rispettando l’ordine esatto dei sentimenti provati dallo spettatore, di un figlio ed una madre: lui, una vita quasi tranquilla fino alla morte del padre, poi una serpentina tra vari istituti correttivi (da cui viene puntualmente espulso); lei, disillusa fino al cinismo, vive rimproverandosi le illusioni che la tormentano.
Due elementi a cambiare le vite dei nostri protagonisti: il primo è la bella, misteriosa e balbuziente vicina Kyla, presenza dapprima ectoplasmica, poi sempre più ferrea nel fare da contrappunto agli altri due; ed una legge inventata, appena entrata in vigore in Canada, che permette di lasciare i propri figli problematici ad una struttura ospedaliera, rinunciando per sempre ad occuparsene.
A Steve, brillantemente interpretato da Antoine Olivier Pilon, è stato diagnosticato un grave disturbo dell’attenzione, che lo fa diventare violento quando si acutizza e lo rende pericolosamente entusiasta nel resto del tempo. Sua madre Diane (Anne Dorval) lo riprende in casa e nella sua vita, piuttosto sacrificata e di certo non facile, provando a far funzionare le loro due sgangherate anime. Tra battute sboccate, abbracci soffocanti, veri momenti di panico e altri di pura libertà, lo spettatore si affeziona ai due ben più del consentito e cade felicemente nella trappola del regista.
Mommy, va detto, è un film su un giovane (Steve), diretto da una giovane promessa come Dolan. Questo dettaglio spiegherebbe da sé molte delle sensazioni in libero circolo: disperazione, gioia eterna, un po’ di erotismo muto. Il regista cerca di trasmettere il disturbo di Steve filtrando ogni ripresa con i suoi occhi, regala tramite immagini la convinzione profonda della giovinezza: il senso di eternità.
Steve si distingue da sua madre proprio per questo: ognuno dei momenti passati in sua compagnia si eterna, non ha cause o conseguenze, come se il presente fosse l’unico modo per vivere. Diane invece, è mantenuta in vita e costantemente uccisa dal ricordo del passato e dal bisogno febbrile di prepararsi al futuro. Una disamina perfetta del mondo adulto contrapposto a quello giovanile, in cui la noncuranza sostituisce tutti gli altri stati d’animo.
Diane e Steve si amano profondamente, senza capirsi mai, senza nemmeno riuscire a raggiungersi: la sensazione è quella di due persone che corrono in opposte direzioni e riescono a stento a sfiorarsi le mani, pur desiderando null’altro che ritrovarsi. La vicina Kyla per un momento fa da collante, tiene strette le due mani, come un’equilibrista tra le due vie, ma nel suo sorrisino amaro si cela la certezza di non riuscire a tener saldo per molto.
Finale amaro o scanzonato? Oserei dire che dipende dall’occhio che guarda. Dolan ha dato vita ad un film in prospettiva totale, pertanto non c’è all’interno un solo fotogramma che non possa beneficiare di duplice interpretazione. Va ricercato proprio in questo il suo guizzo geniale, ed in tempi in cui la relatività è ormai una religione, questo film è una perla rara. Visione consigliata a chiunque sia stato “figlio” almeno una volta nella vita, per comprendere quella morale dal sapore antico e dall’inquietante essenza profetica: “o si cresce o si muore”.