A.A.A. cercasi “Web tax” disperatamente
Tra critiche, modifiche e rinvi, dopo un anno e mezzo, all’appello manca ancora la “Web tax”
di Mattia Bagnato
“Non si muove foglia che Matteo Renzi non voglia”. Questa, in estrema sintesi, lo stato attuale in cui versa la “Web tax”, meglio nota come “Google tax”. Infatti, a più di un anno dall’approvazione della proposta avanzata dal Deputato Pd Francesco Boccia, della tanto agognata norma, che dovrebbe ripotare nelle casse dello Stato i milioni di euro “evasi” dai Big dell’etere, ancora non c’è traccia. A sancirne l’obblio, infatti, sarebbe stato lo stesso Presidente del Consiglio, preoccupato che questa possa favorire l’idea che l’Italia sia “un paese che rifiuta la tecnologia”. Non sia mai, meglio aspettare e passare la patata bollente alla Commissione Europea. Nel frattempo, però, si riaccende il dibattito sulla necessità di regolamentare un ambito in cui, a detta di molti, vige “l’anarchia”.
Il triangolo no – Il travagliato iter legislativo era iniziato con il Governo Letta, che pensò di inserirla nella legge di stabilità del 2014, convinto che la stretta sulle Big company che offrono servizi on-line avrebbe rimesso in moto un settore che, in Italia, stenta a decollare. Troppa concorrenza, si diceva all’ora, ma soprattutto, troppa concorrenza sleale. Ecco allora spuntare, dalle nebbie della legge di stabilità, la soluzione a tutti i problemi, ovvero, l’obbligo di partita Iva per le aziende che vendono servizi, direttamente o indirettamente, nel nostro paese. Un escamotage che dovrebbe mettere la parola fine alla “deprecabile”, ma assolutamente legale, triangolazione commerciale che, fino ad oggi, ha permesso ad aziende come Google ed Amazon di risparmiare il 30% di imposte fiscali.
Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco – Niente da fare, però, perché proprio quando la norma sembrava essere pronta, a stopparla sul nascere ci ha pensato Matteo Renzi appunto, con un ammonimento caduto come un fulmine a ciel sereno. Questa “Web tax” non sa da fare, non così e, soprattutto, non qui. La rilettura che ne è seguita, quindi, sembra essere figlia, probabilmente, delle molte critiche piovute da tutti gli addetti ai lavori, sintomo inequivocabile di una superficiale valutazione. Così, quando il progetto di legge ritorna in Commissione bilancio, per essere ripresentato alle camere, che di lì a poco lo approveranno, i segni delle sforbiciate sono evidenti. Dalla nuova versione, infatti, è definitivamente, sparito l’obbligo di partita IVA per le E-commerce.
La botte piena e la moglie ubriaca – Un colpo al cerchi e uno alla botte, verrebbe da dire. Segnale di una classe politica confusa e impreparata che cerca, inutilmente, di rispondere alle necessità di molte aziende italiane soffocate dal peso dei loro concorrenti americani, ma che si dimostra, allo stesso tempo, incapace di offrire soluzioni efficaci. Il risultato è davanti agli occhi di tutti, una proposta di legge, perché di questo si tratta per adesso, che riceve, ogni giorno che passa, sempre più critiche, prodotto di una serie di limiti evidentissimi, a quali si spera di poter porre rimedio anche grazie alla collaborazione con l’Unione Europea.
Come può uno scoglio arginare il mare – La stessa Unione Europea che, da anni ormai, cerca di fungere da promotore di una “rivoluzione digitale” da tutti auspicata. Il palcoscenico europeo, però, oltre ad essere eccessivamente variegato, rischia di costituire il primo vero e proprio “scoglio normativo” che l’Italia deve aggirare. Perciò, la proposta del Governo, prima ancora che nei limiti economici, potrebbe arenarsi proprio sulle sabie mobili del Trattato di Roma. Infatti, secondo la rivista Forbes, la nuova aliquota IVA cozza con il principio di libera circolazione delle prestazioni e dei servizi e con la semplificazione degli adempimenti IVA transfrontalieri.
Chi dorme non piglia pesci – Così, mentre la “Web tax” giace come la bella addormentata nel bosco di Montecitorio, l’Italia si dimostra, ancora una volta, incapace di aprire un serio e costruttivo dibattito nazionale. Una “deficienza” cronica, che impedisce al nostro paese di affrontare l’irreversibile processo di digitalizzazione che, invece, ha coinvolto tutti i nostri partener europei. L’Italia, infatti, è affetta da sempre da un gap tecnologico molto preoccupante e che ne ha fatto il fanalino di coda in Europa. Una sindrome che, a detta di molti esperti del settore, rischia di essere aggravata dall’introduzione della “Google tax”.
Protezione ed autarchia – Sono queste, infatti, le parole magiche attorno alle quali ruota l’intero scontro politico. Da un lato, infatti, ci cerca disperatamente di costruire un ombrello protettivo attorno alle piccole aziende “nostrane” schiacciate dai loro competitor d’oltre oceano. Dall’altro lato, però, la soluzione immaginata dal Governo appare fortemente controproducente, in quanto rischierebbe di colpire oltre modo proprio i soggetti che sembrerebbe voler proteggere. Infatti, a pagarne il prezzo più alto, nel vero senso della parola, potrebbe essere proprio quelle piccole imprese italiane che operano nel settore.
Ma ndo vai se gli investitori stranieri non ce l’hai – La questione, però, sembra ben lontana dall’esaurirsi qui. A buttare benzina sul fuoco, infatti, ci ha pensato il solito coro di economisti liberali sempre pronti a sbandierare l’efficacissimo spauracchio della fuga degli investitori stranieri. Un evergreen, insomma, che si è riproposto con puntualità svizzera anche questa volta, e che sembra aver saputo “intimorire” anche i più strenui sostenitori della “Web tax”. Un problema politico prima ancora che microeconomico, perché emerge proprio nel momento in cui Barack Obama ha annuncia la tanto attesa “neutralità del web”, dimostrando come, da qualche parte nel mondo, ci sia ancora chi vuole fare del web uno spazio libero e competitivo.
Che il tema sia particolarmente spinoso è fuori discussione, infatti sul tavolo ci sono molte, troppe questioni. Questioni che meriterebbero una ponderata analisi politica ed economica. A preoccupare più di ogni altra cosa, però, è l’idea stessa di ponderazione tipica della cultura italiana. Infatti, mentre tutti gli altri paesi europei hanno deciso, da tempo ormai, di aprire un dibattito nazionale, riuscendo in alcuni casi, vedi Germania, Irlanda e Regno Unito, a trovare soluzioni in merito, da noi il dibattito langue, in attesa, come al solito, che qualcuno ci venga in soccorso. La necessità di recuperare parte del gettito fiscale derivanti dalle Big Company dell’etere è elemento incontrovertibile, ma lo è anche l’importanza di non mettere i bastoni fra le ruote alle aziende italiane. Fa male al cuore vedere che, dopo un anno e mezzo, non si sia riusciti a trovare una soluzione credibile ed efficace che obblighi tutti a pagare il dovuto, impedendo che l’Italia diventi terra di conquista.
(Fonte immagine: http://www.francescoboccia.com)