Che fine ha fatto la web tax?
Tra risanamento dei bilanci e tutela della concorrenza, la tassazione dei colossi delle Rete è al centro di dibattiti italiani e europei. Qual è il futuro della web tax?
“Delle cose ne va capito il perché, non ne va trovata la soluzione“, mi disse un giorno qualcuno.
Accompagno con questa frase, e anche con qualche perplessità, le riflessioni sulla trasformazione digitale del nostro tempo.
Una mutazione azzerderei genetica, che vive e opera nella Net-economy e che si accorge, inevitabilmente, di un diritto in affanno rispetto al progresso tecnologico.
Un tempo, questo, segnato dalla Grande Europa incline al linguaggio della globalizzazione, dove la tutela del pluralismo, della concorrenza e delle idee rappresenta l’addizione mondiale della realtà composta da 0 e 1.
La questione si complica quando, in questo mondo descritto da molti come democratico, i colossi Google, Amazon e simili, di fatto, occupano una rilevante fetta del mercato, mostrando come il ricorso ad alcune pratiche fiscali eludenti sia una prassi consolidata.
Nello specifico, è stato rilevato che alcune operazioni effettuate da multinazionali operanti nel web non venivano fatturare nel paese dove erano rese, bensì registrate come operazione a favore di un’altra società, appartenente sempre al medesimo gruppo, ma con la sede in un territorio a fiscalità decisamente più leggera.
Il danno all’erario e alle altre aziende operanti nel medesimo settore è di una chiarezza disarmante. Cosa fare? Arriva la web tax.
Cerchiamo di ricostruire il quadro.
Dicembre 2013. La prima apparizione, pioneristica in Europa, della web tax si deve al deputato del PD, Francesco Boccia, al tempo Presidente della Commissione Bilancio della Camera.
Ciò viene a concretizzarsi nella proposta di emendamento alla Legge di Stabilità con la quale si chiede l’apertura obbligatoria di una partita IVA per i colossi di Internet, affinché questi possano continuare ad offrire beni e servizi nel nostro Paese. (per approfondire l’iter italiano della proposta di legge clicca qui)
Esattamente un anno dopo, nel 2014, il fenomeno è in via di espansione.
Anche il Governo inglese si dichiara pronto a fronteggiare l’elusione fiscale delle multinazionali a colpi di Google Tax, un’imposizione, dunque, che inizia a mostrare una chiara sfaccettatura virale.
Sebbene, lo scopo della tassazione sia intuitivamente evidente, e, sicuramente, l’intento per le Casse statali di recuperare introiti derivanti da redditi prodotti nel proprio Paese non può che riconoscersi intrinseco e necessario al beneficio della collettività, il censore principale ha la veste europea. (per un approfondimento sul dibattito europeo clicca qui)
Una previsione di questo tipo, infatti, infrangerebbe accordi sottesi al Mercato Unico, principale cardine dell’intero sistema comunitario; dove, tra l’altro, la libera circolazione delle merci e dei servizi rappresenta, al contempo, natura ed obiettivo su scala sovranazionale.
La delineazione, inoltre, di confini fiscalmente rilevanti in uno spazio, la Rete, che per definizione, o almeno empaticamente, confine non ne ha, genera malumori anche tra chi vede nelle potenzialità offerte dal mondo digitale, non l’alternativa, ma la lineare evoluzione della quotidianità.
La fiducia nella tassazione del web colpisce anche la Spagna.
Come è noto, nell’ottobre scorso, è stata approvata la legge che prevede il pagamento di un contributo a favore degli organi di informazioni per i loro contenuti coperti da copyright qualora linkati da siti web terzi, blog o aggregatori di notizie, come Google News: una web tax, questa, che rimarca la delicatezza di un settore, quello del diritto d’autore, continuamente esposto a violazioni online.
La scia euforica di un’ Europa contraddittoria porta ad un interrogativo di fondo: la tassazione è la soluzione o una della vie percorribili, una semplice opzione? Per quanto rigurda poi l’Italia, tra dibattiti politici e proroghe, che fine ha fatto la web tax?
Una domanda che sorge spostanea dato che, qualche giorno fa, con l’emanazione del decreto legislativo attuativo della nuova disciplina europea sulla vendita dei servizi on line dei servizi telematici viene sancito l’obbligo, per chi il servizio lo fornisce, di versare l’ IVA nel Paese di destinazione, o nello Stato di residenza o di domicilio del relative beneficiario.
Obbligo contributivo, questo, che verrebbe ad essere soddisfatto, quindi, a prescindere dall’effettivo stabilimento della sede in Italia di un big di Internet (i c.d. Over The Top), e, conseguentemente, a prescindere dall’apertura della partita IVA, ma che scatterebbe per il solo fatto della fornitura, nel nostro Paese, di servizi prima indicati.
Sulla efficacia o meno del sistema, le voci sono ancora discordanti; una soluzione univoca non c’è, ma dovrebbero esserci tanti passi costanti verso un’etica globale.
(fonte immagine: http://www.dirittodicritica.com/;
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