Il petrolio minaccia l’Artico. La folle corsa all’oro nero
Le trivellazioni minacciano l’Artico. La riduzione della disponibilità di petrolio spinge i grandi colossi a esplorare zone di difficile accesso e ad alto valore ambientale. La corsa all’oro nero spaventa l’intero pianeta, Italia compresa
L’Artico è in pericolo. A minacciare il fragile ecosistema sono le più grandi compagnie petrolifere alla ricerca di giacimenti off-shore. La progressiva riduzione della disponibilità di petrolio spinge, infatti, i grandi produttori a esplorare aree fino ad oggi considerate insufficienti e di difficile accesso. Sono difatti moltiplicate le richieste di permessi di perforazioni in mare, in zone ad altissimo valore ambientale tra cui l’Artico e il nostro stesso Mar Mediterraneo.
L’Artico, soprannominato “frigorifero del mondo“, svolge un ruolo fondamentale nella regolazione del clima globale. Si tratta di un ecosistema fragile, sempre più minacciato sia dal cambiamento climatico sia dalle estrazioni petrolifere. Iceberg e mari in tempesta rendono la navigazione e le trivellazioni, a queste latitudini, estremamente rischiose. Perforazioni in territori così delicati sarebbero perciò pericolose per l’intero pianeta.
La prima compagnia a esser riuscita a estrarre petrolio in Artico è stata il colosso russo Gazprom. Oggi ci riprova l’olandese Shell. Nonostante numerosi rapporti ufficiali confermano che una perdita di petrolio nell’Artico sarebbe impossibile da ripulire, con conseguenze devastanti per un ecosistema che ospita migliaia di specie uniche, il Ministero degli Interni degli Stati Uniti ha annunciato un primo via libera alle concessioni petrolifere al Polo Nord. Entro cento giorni, dunque, Shell sarà autorizzata a trivellare nel Mare Artico, vicino l’Alaska.
Il dipartimento degli interni USA ha rilasciato una valutazione d’impatto ambientale riscontrando che, nel corso delle operazioni di scavo, ci sia una probabilità del 75% che l’azienda si renda responsabile di una fuoriuscita di petrolio di oltre 1.000 barili. Il rapporto prevede inoltre 750 piccoli sversamenti. La Shell, dal canto suo, sostiene di avere le capacità per fronteggiare una tale evenienza. Una ricerca indipendente, realizzata dalla National Academy of Sciences, spiega però che “non c’è un modo efficace per rimediare a uno sversamento petrolifero in un’area così remota come l’Artico”.
Il Segretario degli Interni degli Stati Uniti Sally Jewell, in un comunicato, ha precisato invece che “l’Artico è una componente importante della strategia energetica nazionale dell’amministrazione e noi rimaniamo impegnati a prendere un approccio riflessivo ed equilibrato per l’esplorazione alla ricerca di petrolio e gas e offshore in Alaska. Quest’ambiente unico, sensibile e spesso impegnativo, richiede una supervisione efficace per garantire che tutte le attività siano svolte in modo sicuro e responsabile”.
Uno studio dell’US Geological Survey ha stimato che la regione artica detenga il 13% delle riserve mondiali di petrolio ancora non scoperte, circa 90 miliardi di barili che basterebbero ad alimentare la richiesta mondiale di petrolio per circa tre anni. Una riserva dunque molto esigua, che non giustifica una così alta considerazione per un territorio tanto delicato e difficilmente praticabile.
L’azienda olandese, intanto, con la sua flotta di trivellazione si sta dirigendo verso l’Alaska Artica. La nave di perforazione Noble Discoverer e la piattaforma petrolifera Polar Pioneer si trovano a circa 750 miglia a nord ovest delle Isole Hawaii, dirette nel Mare di Chukchi.
La piattaforma è sotto stretta osservazione da parte di Greenpeace, che con la nave rompighiaccio Esperanza, ha inseguito la Polar Pioneer per più di 5.000 miglia nautiche, sin da quando era salpata da Brunei Bay in Malesia. Con una spettacolare azione sei attivisti, lo scorso 7 aprile si sono arrampicati fino a 40 metri di altezza accampandosi sul lato inferiore del ponte principale, rimanendovi per una settimana. Tra i militanti Andreas Widlund, svedese di 27 anni. Significativa la sua storia personale: ha lavorato per anni sulle piattaforme petrolifere e oggi combatte per un futuro libero da trivellazioni offshore.
L’obiettivo dell’associazione ambientalista è di opporsi alle perforazioni e di sensibilizzare l’opinione pubblica circa lo sfruttamento di un ecosistema così prezioso e fragile. Greenpeace ha precisato che gli attivisti hanno protestato in maniera pacifica e simbolica e non hanno interferito in alcun modo con le attività di navigazione.
A confermare la pericolosità di operazioni di scavo, in territori difficili come l’Artico, si ricorda l’incidente che, nel gennaio 2013, coinvolse la piattaforma petrolifera Kulluk, di proprietà della Shell, che s’incagliò sulle coste dell’Alaska durante alcune trivellazioni esplorative. Il disastro ambientale, in quell’occasione, fu evitato solo grazie all’intervento tempestivo della guardia costiera statunitense. In seguito all’accaduto Shell decise di sospendere per il 2013 le esplorazioni.
Le trivellazioni a scopo estrattivo e il trasporto dell’oro nero hanno causato numerosissimi disastri con conseguenze gravissime per l‘ecosistema e per la salute stessa dell’uomo.
Il 20 aprile 2010 la piattaforma Deepwater Horizon, della società petrolifera British Petroleum, esplose durante la realizzazione di un pozzo a 1.500 metri di profondità nelle acque del Golfo del Messico, causando la morte di 11 persone e il riversamento in mare di circa 780 milioni di litri di petrolio. La fuoriuscita continuò per 85 giorni, quando fu possibile fermare il pozzo. Fu il disastro ambientale più grave della storia americana.
Lo sversamento di prodotti petroliferi provoca, dunque, ingenti danni ambientali legati alla particolare struttura molecolare del petrolio. È, infatti, composto di una miscela d’idrogeno-carbonio, possiede inoltre un minore peso specifico dell’acqua che porta a un iniziale galleggiamento sulla superficie del mare e, in seguito, per effetto della contrazione della molecola, la precipitazione sul fondo marino, causa danni irreparabili per gli ecosistemi.
La corsa all’oro nero riguarda anche l’Italia. Le aree maggiormente interessate sono i fondali del Canale di Sicilia, tra Italia e Tunisia, uno dei punti di maggior diversità biologica del Mar Mediterraneo. In queste acque quasi la metà delle concessioni accordate in Italia. Secondo il rapporto 2012 di Greenpeace, le aree di maggior interesse per le compagnie petrolifere al momento sono quelle al largo delle isole Egadi.
Nel Mar Adriatico meridionale e nello Jonio ci sono enormi giacimenti di gas, si tratta delle riserve europee attualmente più ricche e meno sfruttate. La dorsale più cospicua va da Chioggia (in Veneto) al Gargano in Puglia. La Basilicata risulta la regione più sfruttata e la Val d’Agri è il più grande giacimento di petrolio dell’Europa continentale. L’Italia è oggi posizionata, tra i Paesi europei, al quarto posto per produzione petrolifera.
Il geologo Mario Tozzi tiene, però, a precisare: “Io ho lavorato nell’industria petrolifera e c’ero anch’io quando in Basilicata è stata tirata fuori la prima ‘carota’ con il greggio. I danni ambientali sono risultati subito evidenti”.
I dati del rapporto ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) indicano che dall’agosto 1977 a dicembre 2010, circa 312.000 tonnellate di petrolio sono state sversate nel Mediterraneo a seguito di 545 incidenti.
È paradossale come in un momento in cui le scorte di petrolio sono sovrabbondanti e in cui l’offerta di greggio è superiore alla domanda, si vada alla ricerca di giacimenti in territori tanto importanti per l’ecosistema quanto poco efficienti in termini di resa estrattiva, con rischi gravissimi per l’ambiente e per la salute dell’uomo.
La dipendenza dell’economia globale dai combustibili fossili minaccia sempre di più la vita e la salute umana. Sarebbe auspicabile puntare a un effettivo sviluppo di fonti rinnovabili. Modificare perciò le nostre abitudini e le tecnologie sono il contributo cui tutti dovremmo puntare per un futuro libero e sostenibile.
Bisognerebbe sempre prevedere anche l’imprevedibile perchè il giorno in cui dovesse accadere nulla tornerebbe come prima. Sì, giusto, cerchiamo nel nostro piccolo di modificare con responsabilità le nostre abitudini e puntiamo all’obiettivo PIANETA SANO.
Interessante articolo. La salvaguardia del Pianeta è fondamentale. Forse bisognerebbe tornare un po’ indietro…a volte penso che tutto questo bisogno di energia da trovare “altrove” da estirpare dalla Terra derivi dall’incapacità umana di utilizzare la propria energia nel modo corretto.
Ci sono persone che lavorano ogni giorno per tutelare il mondo in cui viviamo, per studiarlo. Ad esempio in Antartide. Qui ho intervistato una componente del team della Spedizione in Antartide http://www.mytravelife.com/cronache-dai-ghiacci-90-giorni-in-antartide-chiara-montanari/
Quando sono stata al di là del circolo polare Artico…ho visto molti documentari nei musei dei ghiacci…bisognerebbe diffonderli di più. Il mondo è la nostra casa…e lo stiamo trasformando in una bomba pronta a esplodere.