La Buona scuola, chiacchiere e proteste
Il 5 maggio in piazza scenderanno tutte le sigle della scuola per protestare contro un disegno di legge ampio e controverso. Se da un lato si apre un dibattito sulle innovazioni, dall’altro trionfano ancora qualunquismo ed idealismo da rivoluzione anni ’60
di Raffaele Meo
“Buona scuola, brutta faccenda. No alla scuola azienda“, “Contro la scuola di classe“, “scuola pubblica, diritti e no alla precarietà“. Se questi sono gli slogan degli “innovativi” cortei studenteschi, la situazione è grave. Frasi impregnate del più becero idealismo degli anni ’60, cui si affiancano una scarsa informazione, scarsa cultura democratica e una preoccupante miopia verso la realtà.
E non vogliamo pensare che la data della protesta generale, il 5 maggio, il martedì successivo al ponte della festa dei lavoratori, sia stata accuratamente scelta per allungare le vacanze. Non vogliamo crederci, anzi, speriamo fortemente che questa sia solo un’illazione fatta dai maligni. Procediamo, come di consueto, per gradi.
Un ddl, mille proposte, una sola protesta – La Buona scuola è un progetto importante, estremamente complesso, che tocca l’intero sistema organizzativo della scuola pubblica, intervenendo solo collateralmente, anche se in una maniera molto discutibile, nel settore privato. Sono molti i cambiamenti in cantiere, che puntano, almeno negli intenti, a cambiare radicalmente l’idea stessa di scuola, portando gli studenti al centro e favorendo una flessibilità del percorso formativo come mai era stato pensato nel nostro Paese. La nascita del curriculum dello studente, un documento redatto dalla scuola per certificare il percorso e le specializzazioni dello studente, sarebbe un passo fondamentale per avvicinare i ragazzi al lavoro fin dalla scuola. Tutto ciò, quasi paradossalmente, è totalmente assente dal dibattito pubblico.
Le proteste degli studenti – Come detto in precedenza, le proteste studentesche vertono unicamente su una presunta privatizzazione del sistema scolastico e sull’introduzione del famigerato ponte scuola-lavoro, un sistema che avvicinerebbe gli studenti delle scuole superiori al mondo delle aziende.
La disputa su questo punto è semplice: gli stage, tirocini o esperienze di laboratorio andrebbero effettuati durante l’orario curricolare e non, ad esempio, durante le vacanze estive. Impegnare i periodi di sospensione della didattica, dichiara un componente del settore giovanile di Rifondazione Comunista, fa sì che la scuola diventi un sistema “che mette da parte la creatività, la didattica e persino la spensieratezza a favore della privatizzazione”. La domanda che viene spontanea, a questo punto, è quando ci sarebbe il tempo di terminare i programmi se per tre settimane gli studenti sono impegnati con lo stage. Tutta l’organizzazione di verifica e didattica, come verrebbe gestita? Non è lecito sapere.
Una proposta alternativa: la LIP – Come spesso accade in queste situazioni, le proteste abbondano, ma le proposte alternative scarseggiano, almeno per quanto riguarda la qualità. I comitati studenteschi, infatti, impugnano la LIP (Legge di Iniziativa Popolare), una proposta fatta nel lontano 2005 per contrastare la riforma dell’allora governo Berlusconi. Un documento articolato, che in alcuni punti presenta anche spunti interessanti, ma che in sostanza non fornisce alcun piano economico sostenibile. Le parti sui finanziamenti si possono riassumere così: le scuole gestiscono in autonomia assunzioni, programmi, corsi extracurricolari, alunni, professori, ma a pagare il conto deve essere il Ministero. Un po’ come fare acquisti con la carta di credito di papà.
Una scuola indipendente – L’autonomia scolastica, un principio sacrosanto già sancito nel 2005, secondo il governo va interpretato come maggiore indipendenza, anche economica e non solo organizzativa, per i plessi scolastici, dove deve regnare meritocrazia e organizzazione, dove la qualità dell’insegnamento deve concentrarsi sull’eccellenza dei percorsi singoli, a totale appannaggio dello studente. L’apertura ai finanziamenti privati viene presentata come la possibilità per le scuole di promuovere il proprio operato sul territorio, attirando sponsor e donazioni, possibili anche donando il 5 per mille dalla dichiarazione dei redditi.
Di opinione assolutamente opposta gli studenti, per i quali far entrare il privato significa cedere alle lobby di potere e trasformare le scuole in diplomifici, proprio come accadrebbe in alcune scuole private. Un odio, quello contro le scuole private, probabilmente alla base delle varie distinzioni fatte nella LIP, in cui i professori provenienti dai plessi privati vengono considerati in qualche modo non allo stesso livello dei pubblici. Per fare un esempio, nell’articolo dedicato all’elezione del preside, il candidato deve poter vantare almeno dieci anni di insegnamento, specificando che questo periodo deve essere stato svolto unicamente presso istituti pubblici. I principi di uguaglianza, meritocrazia, giustizia e quant’altro, insomma, spariscono contro il “nemico” privato.
La meritocrazia – Diventò un vero e proprio tormentone durante le scorse elezioni politiche con il discorso di Oscar Giannino sulle presunte pressioni ricevute da un suo candidato da un “magnifico” rettore, ospitato nelle liste di un partito contrapposto. La verità è che il concetto di meritocrazia è stato completamente travisato. Il “merito” è quando una persona, in una data professione, riceve riconoscimenti per la qualità del proprio lavoro, per le sue eccellenze. Tutti possono partecipare alle selezioni e l’accesso ad un dato posto è concesso in base ad una graduatoria di competenze ad attinenze dei candidati. In alcuni ambiti questo concetto è stato trasformato in “tutti meritano in quanto sono”, una sorta di sillogismo cartesiano allargato. Si fa troppo spesso confusione tra merito e stato di diritto, ma sventolare quest’ultimo concetto fa sempre comodo negli slogan da battaglia, ignorando che l’abuso svaluta ciò che si vuole ribadire.
Note a margine – In sostanza gli studenti rivendicano un posto nella disputa col governo, rivendicando uno stato di diritto, a loro dire, violato. Il punto è che, meritocraticamente, per sedersi a discutere bisogna avere argomenti tangibili, non banderuole desunte dagli appunti rivoluzionari di qualche sessantottino. La scuola deve cambiare e le prospettive individuate dal disegno di legge sono interessanti e propositive, non scevre da criticità e possibili miglioramenti, ma comunque per la prima volta in vent’anni, con un obiettivo decisamente rivoluzionario.
I dubbi dei professori – Il vero nodo sul quale si dovrebbe dibattere è la questione precariato e assunzioni: dopo le promesse di settembre, la Buona scuola di Renzi non sembra soddisfare i precari e i supplenti, soprattutto perché dalle innovazioni sulle assunzioni e sui nuovi poteri dei presidi (denominati presidi-sindaco o presidi-sceriffo) rimangono molte perplessità. Forse è questa la chiave di critica maggiore che si può muovere a questa riforma, ottima negli intenti, ma che tralascia troppi dettagli nella pratica. Alcuni quesiti possono essere: chi controllerà l’operato di tutti i presidi? Chi si assicurerà che i fondi vengano gestiti nell’interesse degli studenti? Dovrebbero essere le istituzioni ad occuparsene, ma sappiamo bene quanti cortocircuito si sono innescati in situazioni del genere.
Gli enti privati – Ben vengano le privatizzazioni, se fatte in maniera intelligente e corretta, ma se per salvare gli istituti privati la Buona scuola prevede lo sgravo fiscale per le famiglie che iscrivono i figli presso questi istituti, niente viene preposto nel caso di fallimento di qualche plesso pubblico. Legittime qui le rivendicazioni, ma come si chiede a gran voce che il governo salvi le Pmi, perché le scuole private non possono essere racchiusi in questa categoria? Una domanda spinosa, che può e deve aprire un dibattito che coinvolga tutti gli interessati.
Come si nota, le questioni sono tante e molto complesse. Un provvedimento come la Buona scuola comporta un cambiamento radicale in un sistema basilare nella vita del Paese. Aggiornare la scuola per renderla più idonea alle esigenze del mondo del lavoro è diventato un imperativo non più trascurabile. Piccola riflessione: la Costituzione garantisce il diritto all’istruzione, la scuola è lo strumento che deve funzionare a questo scopo. Il soggetto delle leggi è, e non può essere altrimenti, il diritto e non la scuola che, anzi, va riformata proprio affinché svolga il suo compito. Si deve salvare l’istruzione, non la scuola.
(Fonte immagini: https://triskel182.wordpress.com;
https://www.youtube.com;
https://luciogiordano.wordpress.com;
http://www.orizzonteuniversitario.it/;
http://www.raianoscuola.gov.it/)