Contrada non è stato assolto
Un’altra sentenza della Corte per i Diritti Umani di Strasburgo, dopo quella sui fatti della Diaz, è destinata a far discutere: Bruno Contrada condannato ingiustamente?
La Corte Europea per i Diritti Umani, dopo la sentenza sui fatti della Scuola Diaz, bacchetta l’Italia anche a proposito del caso di Bruno Contrada. L’ex “numero 3” del SISDE, condannato nel 2007 per “concorso esterno in associazione mafiosa”, non solo non doveva essere condannato ma avrebbe diritto a un risarcimento di 10mila euro da parte dello Stato. Per i giudici di Strasburgo è stato violato l’articolo 7 della Convenzione Europea per i Diritti Umani, quello che afferma il principio “nulla poena sina lege”.
Contrada ha presentato il ricorso un anno dopo la condanna, martedì la Corte gli ha dato ragione: all’epoca dei fatti contestati, tra il 1979 e il 1988, il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” non era sufficientemente “chiaro e prevedibile” e più precisamente “il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso è il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza italiana posteriore all’epoca in cui lui avrebbe commesso i fatti per cui è stato condannato”.
In pratica, il superpoliziotto “non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti”. In base allo stesso principio, l’avvocato di Contrada continua a chiedere la revisione del processo, finora sempre rigettata dai tribunali italiani. Insomma, Contrada “mafioso a sua insaputa”?
Era “a disposizione di Cosa Nostra” con questa motivazione la Procura di Palermo fece spiccare il mandato d’arresto nei suoi confronti nel 1992. Sulla sua posizione pesavano le dichiarazioni di “collaboratori” del calibro di Gaspare Mutolo e Tommaso Buscetta. Quest’ultimo, in particolare, riferì ai magistrati che Rosario Riccobono, boss vicino a Totò Riina, gli aveva detto che Contrada passava informazioni sulle operazioni della polizia.
Stessa cosa venne poi confermata da Mutolo: alcuni boss come Badalamenti e Bontade, ai vertici dell’organizzazione prima della scalata “corleonese”, sostenevano la “linea morbida” che consisteva nell’avvicinare gli uomini delle istituzioni per poi ottenere protezione e aggiustare i processi.
Bruno Contrada è stato condannato dalla giustizia italiana in tutti e tre i gradi di giudizio; il dato impone l’ammissione della gravità e dell’imponenza delle prove a suo carico. Detto ciò, la sentenza della Corte di Strasburgo non mette neanche lateralmente in discussione i fatti così come sono stati ricostruiti dai giudici italiani che l’hanno condannato.
Tra l’altro, fa notare Giancarlo Caselli, “le oscillazioni giurisprudenziali sono sopravvenute successivamente, ben dopo i fatti contestati al dott. Contrada, e cioè a partire dal 1991: quando l’introduzione della speciale aggravante mafiosa ha dato luogo al c.d. “favoreggiamento mafioso”, a fronte del quale si è ipotizzato che non potesse esservi più spazio autonomo per il concorso esterno, in quanto assorbito dal favoreggiamento. Quindi, il contrario di quel che ha scritto Strasburgo”.
Equivoco? Sottovalutazione? La sensazione è che la Corte Europea si sia affidata unicamente alle “carte”, operando attraverso criteri burocratico-formalistici, non considerando la reale complessità del fenomeno mafioso. D’altra parte, le azioni di Contrada anche se non fossero rientrate nel raggio del “concorso esterno” sarebbero state comunque punibili in base al reato di “favoreggiamento”.
Come fa notare Antonio Ingroia: “Se fossimo in presenza di fatti che non erano punibili con alcun reato allora forse si potrebbe ragionare e dibattere su questa sentenza della Corte dei diritti dell’uomo. Siccome siamo comunque in presenza di fatti che costituiscono reato, fatti specifici e favori che il condannato ha fatto ai mafiosi, credo che non si possa neanche discutere. Per questo dico che questa sentenza nasce da un’insufficiente conoscenza del caso Contrada e delle motivazioni per cui sia stato condannato. C’è proprio anche una scarsa conoscenza del diritto penale italiano e della storia giurisprudenziale italiana”.
Lo Stato italiano adesso ha il dovere di impugnare la sentenza che impone il risarcimento. Il gesto non valorizzerà soltanto il duro percorso, non immune da passi indietro, che abbiamo dovuto affrontare per arrivare alla legislazione anti-mafia (il “concorso esterno” – diceva Falcone – era lo strumento migliore per colpire la “zona grigia” tra potere mafioso e istituzioni) ma ancor di più ricorderà all’Europa l’importanza di dotarsi dei mezzi adatti per risolvere un problema che non è mai stato solo italiano.