Isis, dentro l’esercito del terrore
Al Festival del Giornalismo di Perugia un panel dedicato al binomio tra propaganda e Dio, volto a spiegare la fenomenologia dell’Isis, la sua nascita e il suo successo non tanto sul fronte militare, quanto soprattutto in campo mediatico
“Il terrorismo in sé è comunicazione, perché l’atto terroristico è un atto di comunicazione verso il proprio nemico”.
Con queste parole Eugenio Dacrema, uno degli ospiti del panel Isis, dentro l’esercito del terrore: tra social media e Dio, svoltosi nella gremita Sala Raffaello dell’Hotel Brufani al Festival del Giornalismo di Perugia, ha voluto esordire per fornire un quadro quanto più dettagliato possibile del fenomeno Isis e del sistema comunicativo di cui si avvale oggi e grazie al quale sta diventando così famoso.
L’incontro, al quale hanno preso parte anche Fabio Chiusi, giornalista freelance, e Marta Serafini del Corriere della Sera, ha contemplato un unico grande fulcro: qual è l’importanza dei social media all’interno delle strategie comunicative dell’Isis?
La risposta è chiara: molta.
Il binomio propaganda – Dio è estremamente importante per spiegare l’Isis, non tanto per quanto riguarda le conquiste in ambito militare, quanto per capire il modo in cui lo Stato Islamico ha conquistato le nostre coscienze. La propaganda in questo caso è un modo efficace di cui si avvale l’Isis per autorappresentare se stesso al mondo, di modo che il gruppo jihadista possa fornire all’esterno l’immagine di sé che vorrebbe dare.
Perciò la domanda sorge spontanea: quanto i giornali, le tv e i media sono responsabili nel riportare questa propaganda? Come e in che misura la diffondono? In tutto questo grande gioco, Dio fornisce sostanzialmente un’ideologia per dare un senso alla rappresentazione del gruppo terroristico, per legittimare le sue azioni di fronte ai nemici.
Possiamo domandarci se l’Isis stia vincendo o meno in ambito territoriale, ma è ormai quasi del tutto fuori discussione che stia ottenendo una convincente vittoria sul piano comunicativo. “In un sistema mediatico dove lo scandalismo impera”, sentenzia Chiusi, “l’ultraviolenza dell’Is è perfetta per finire in prima pagina”.
Ma l’Isis è davvero quello che i media vorrebbero farci vedere? È realmente quello che appare dal loro racconto, o è il racconto dei media ad essere diverso rispetto a quello che l’Isis è?
Tentare di dare una risposta sembra quantomeno difficile, ma una cosa è certa: non dovremmo inciampare nell’errore grossolano in cui molta stampa nostrana vorrebbe farci cadere. Non ci si può abbandonare all’idea che ciò a cui stiamo assistendo sia uno scontro di civiltà – per dirla con le parole di Chiusi e Dacrema – altrimenti finiremmo per cadere nella trappola stessa dei terroristi.
Per fermare la loro assurda propaganda serve necessariamente una contronarrazione forte, che sia in grado di fronteggiare e di abbattere l’interesse che una testa mozzata suscita nel lettore: “spesso la cosa grave è che ci troviamo di fronte ad una contronarrazione debole, perché una testa decapitata è perversamente più attraente di un tweet. Purtroppo il sangue nel giornalismo fa contatti, fa copie”.
E quindi la propaganda continua, dilaga con convinzione e ininterrottamente, con l’utilizzo strategico anche di figure femminili all’interno dello stesso sistema propagandistico. Come spiega Marta Serafini, le donne all’interno dell’Isis hanno ruoli diversi: ci sono le schiave, ci sono le compagne dei capi e ci sono le donne che vengono considerate idonee alla propaganda e anche al combattimento.
Le donne scelte per farsi fotografare con i kalashnikov a bordo di una lussuosa Mercedes, o al contrario mentre accarezzano dei gattini o guastano vasetti di Nutella – a simboleggiare uno stile di vita libero e gioioso, in particolare ad Al-Raqqa e a Mosul, i centri nevralgici dell’Is – vengono utilizzate al fine di incoraggiare altre donne ad unirsi a loro, all’interno del gruppo terroristico.
Se da un lato, quindi, il ruolo della donna è esclusivamente quello di essere un oggetto, che si muove in completa copertura e non ha diritto alcuno, ma ha semmai il dovere di essere sempre fedele al marito e ad Allah, dall’altro invece il suo ruolo è quello di fare propaganda e di scendere in guerra, armi alla mano.
Se, come tuona Dacrema, le prime due generazioni (quella dei padri e quella dei fratelli) di jihadisti si avvalevano dell’utilizzo esclusivo dei volantini, delle audiocassette e delle tv per espandere la loro propaganda, la terza generazione, quella dei media, si avvale dell’aiuto dei social.
Accanto all’utilizzo dei media, inoltre, sia al-Zarqawi che l’Isis hanno avuto un’intuizione ulteriore: non solo hanno diffuso e continuano a diffondere il loro messaggio di violenza e di morte, ma, per fare colpo sui giovani potenziali jihadisti di tutto il mondo, giocano la carta dell’ “immediatezza”. L’ideologia classica della progressività della lunga lotta al fine di raggiungere il califfato globale è superata: l’Is non promette più il raggiungimento dello scopo prefissato tra mille, duemila anni, ma dichiara l’attivismo hic et nunc.
Non solo la gente, ora e sempre, potrà condurre una “vita perfetta, secondo i loro punti di vista” nei territori controllati dall’Isis, ma viene rilanciata anche l’idea di espansione continua: creato il califfato, si potrà condurre un’ esistenza in perfetta sintonia con Dio, perché Dio è con lo Stato Islamico, lo aiuterà a vincere e ad espandersi.
Il quadro tanto sconcertante quanto accattivante che emerge dall’incontro, nonostante l’assenza dell’ospite d’onore, Hassan Hassan – The National, aiuta a chiarire non solo la dimensione all’interno della quale ci stiamo muovendo, ma fornisce gli strumenti utili per tentare di prevedere l’andamento futuro.