Expo 2015 e Black Bloc, un amore devastante

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Gli eventi di Milano dello scorso fine settimana si trascinano tutt’ora, scatenando una polemica al limite del grottesco in un Paese dove si passa dal garantismo più sfrenato a 50 sfumature di fascismo. Davvero la virtù sta nel mezzo?

di Raffaele Meo

expo2015

(fonte immagine: alberghierovelletri.gov.it)

Pronti? Via! – Effettivamente era un po’ che in Italia non si metteva a ferro e fuoco una città. Effettivamente non si erano ancora spenti i tizzoni della discussione sulla sentenza Diaz, che tocca parlare di nuovo di Black Bloc, contestazioni violente, ecc.ecc. La domanda è: ne vale davvero la pena? Mi spiego meglio.

Le due vie della discussione – Analizzare i trend delle discussioni dell’arena pubblica in Italia non significa guardare il programma di Giletti, bensì sondare con calma, pazienza e mezzi, quello che circola tra le menti eccelse dei miei connazionali. Questa volta i migliori spin doctor del Bel Paese durante il week end si sono divisi in due filoni: i custodi della morale e i nostalgici del manganello. Due categorie uniche, meravigliose e dal fascino un po’ retrò che strizza sempre l’occhio a quei famosi anni ’60 con cui me la prendo spesso da queste colonne virtuali. Vediamoli più da vicino.

Carneade, chi era costui? – Come per il povero curato dell’opera manzoniana, anche per me risulta difficile ricordare i nomi di tutti i meravigliosi opinion leader improvvisati che ho avuto il piacere di ascoltare in questi giorni. Un vero peccato, perché sarebbe bello poter, un giorno, ricordare a queste persone ciò che hanno detto, un po’ per scherno, un po’ per cattiveria pura e semplice.

Due categorie, dicevo, due antipodi del pensiero. In sostanza c’è chi ha difeso a spada tratta il diritto a manifestare il proprio pensiero e chi ha ipotizzato l’abolizione di tale possibilità. Ora, non ci vuole un filosofo per capire quanto queste due posizioni siano errate, per buona pace di quell’esponente della Lega Nord che durante una trasmissione tv continuava a ripetere “perché non mandarli tutti a zappare in campagna?“. Una domanda pericolosa, in quanto poi diventerebbe legittimo ritorcerla contro chi l’ha proferita, non trovando comunque, ahimè, risposta soddisfacente.

Protestare è sempre giusto – Ciò che mi ha lasciato più perplesso della categoria “moralizzatori” è stata la profonda e radicata convinzione che protestare contro l’Expo2015 fosse una cosa giusta. Per quale motivo? Per il diritto alla protesta e la libertà d’opinione. È questo il sillogismo più grave della nostra epoca: giustificare le azioni in base al riferimento ad un diritto. Il fatto che esista una possibilità sancita da un corpus di leggi non ne giustifica in automatico l’uso e, soprattutto, l’abuso. Per esempio, per quanto banale: esiste il diritto al divorzio, ma non per questo le coppie sposate divorziano solo per poter esercitare questo diritto.

La protesta, quindi, deve avere delle radici. Nessuna delle opinioni che ho sentito mi ha neanche lontanamente soddisfatto, ma questo non importa. L’unica cosa che conta è la famosa frase “sono contro, perché…“, ma DEVE esserci un perché. Dire semplicemente “perché è sbagliato” non è una motivazione necessaria e sufficiente a giustificare la discesa in piazza. Quando mancano dei motivi chiari, puri, validi e ragionevoli, l’esercizio del diritto diventa invece abuso e se ne snatura completamente l’essenza. Il risultato? La nascita della seconda categoria presa in analisi in questo pezzo, ma permettetemi una piccola digressione su una branca, di minoranza, dei moralizzatori: i sostenitori delle proteste come “grande festa”.

Il concerto del Primo Maggio – La pacchiana considerazione che le proteste “belle” sono quelle con cori, canti, musica, balli, striscioni colorati e quant’altro è a dir poco raccapricciante. Spiegatemi da quando una protesta è diventata la sagra della castagna. Soprattutto spiegatelo a quei leader degli anni ’60 e ’70 a cui queste persone dicono di ispirarsi. Ce le vedo le donne che bruciavano i loro reggiseni in piazza per rivendicare la parità di diritti, sentirsi dire che la loro manifestazione sarebbe diventata una sfilata di nudi con un gruppo di percussionisti africani, sessioni di body painting, concerti di musica popolare balcanica. Gli Elio e le Storie Tese avevano ragione.

La via del Manganello – Eccoci giunti alla parte più amara di queste considerazioni: i nostalgici delle purghe. Non importa quale colore adesso vestano, perché il nero degli squadroni degli anni venti ce l’hanno nel cuore. Manganelli: manganelli ovunque. Per queste persone ogni protesta, ogni qualsiasi forma di espressione non conforme alle loro idee va soppressa con la stessa violenza con la quale si cerca di sterminare le zanzare d’estate. Sono tutti stupidi, ignoranti, incapaci e perditempo, non ci sono vie di mezzo. Se sei del loro colore, invece, non importa se sei un assassino o un pedofilo, va benissimo. Un’incoerenza di fondo che non vale nemmeno la pena di approfondire.

L’unico motivo per giustificare quest’insorgenza dal sapore vagamente fascista è la violenza dei Black Bloc, la paura nei confronti di questo movimento di imbecilli che ha fatto della devastazione componente fondamentale del proprio linguaggio. E sì, su di loro non si può che essere d’accordo con i “manganellisti”.

Il punto cruciale è che queste due derive di pensiero, hanno generato una serie viziosa di situazioni, nella quale è impossibile districarsi: da un lato l’abuso del diritto alla protesta ha creato una generazione di inetti privi di ogni senso critico, disposti a scendere in piazza solo se c’è da fare casino. Ce l’hanno dimostrato le varie testimonianze raccolte dalle tv. Dall’altra parte, l’ingiustificata tendenza al manganello ha inasprito la contestazione, per l’atavica paura di vedersi revocare dei diritti sacrosanti in nome di una presunta sicurezza.

Il problema dell’attualità – Cosa fare, quindi, in queste situazioni? Qual è il lato giusto? Dare troppo spazio alle manifestazioni significherebbe consegnare le nostre città in mano ai facinorosi e ai violenti, mentre inasprire la repressione significherebbe importanti perdite dal punto di vista dei diritti, nonché il verificarsi di nuovi “casi Diaz”. Non vi è dubbio che la polizia e lo Stato debbano mostrare il pugno di ferro contro i violenti, ma colpire in maniera selettiva all’interno di una manifestazione di piazza è praticamente impossibile. D’altro canto chi intende manifestare dovrebbe essere più selettivo e dedicarsi a vere battaglie, non organizzare sagre di paese per ogni minimo evento della vita pubblica del Paese.

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