Il sangue sotto la neve
“Torneranno i prati” di Ermanno Olmi è un De Profundis in memoria dei tanti caduti della Prima Guerra Mondiale, soldati morti senza nemmeno sapere il perché, ai quali il film chiede scusa
Venerdì 22 maggio al cinema Farnese Persol di Roma un nuovo appuntamento dell’iniziativa “Icone. Stile e moda nel cinema“, un dialogo tra autori e pubblico. Ospite della serata è stato Claudio Santamaria per raccontare “Torneranno i prati“ di Ermanno Olmi, film di cui è protagonista, e la cui proiezione è stata il fulcro dell’evento.
La visione è stata preceduta da un’appassionata riflessione sulle tematiche sollevate dal film alla quale hanno contribuito il giornalista e curatore della serata Franco Contini e la professoressa Brigida Milazzo, che con i loro interventi hanno arricchito il dialogo con Claudio Santamaria.
L’attore ci cattura fin da subito con i suoi ricordi di un set estremo situato a 1.100 e 1.800 metri sull’altipiano di Asiago, dove il regista ha deciso di ricostruire una trincea affinché gli attori patissero quel freddo e sentissero quel senso di isolamento come lo sentirono un secolo fa i ragazzi che presero parte a quel massacro imbellettato dall’amor patrio.
Fatti realmente accaduti e liberamente ispirati al racconto “La paura” di Federico De Roberto. Come ricorda Contini, la Grande Guerra è stata la prima guerra moderna e l’ultima “umana” (senza l’ausilio di mezzi tecnologici), ed è stata anche quella che il cinema ha provato a immortalare, spesso mistificandola attraverso dei falsi storici.
È la guerra meno affrontata dalla cinematografia italiana, certamente per lo sforzo produttivo di girare delle scene con grandi masse di comparse, ma sicuramente per un bisogno di rimozione collettiva rispetto a una guerra che, scrostata la retorica, resta un inutile e insensato massacro.
Proprio la consapevolezza del comando sbagliato e della sua insensatezza sono gli aspetti che più di tutti hanno colpito Claudio Santamaria durante le riprese del film, nel quale interpreta un maggiore, uno che sta nelle retrovie, rischiando decisamente meno dei fanti, espressione di quel divario di classe che si ripresenta anche in trincea.
L’attore romano racconta delle difficili condizioni climatiche durante le riprese, ma questi disagi fisici sparivano di fronte alla grandezza umana di Ermanno Olmi, che ha sostenuto gli attori per permettergli di mettere a nudo il loro lato più profondo, di togliere fuori la poesia.
Emblematica è l’indicazione usata dal regista per calare gli interpreti nella tragedia di quei giorni. Essi dovevano tenere sempre a mente di poter morire da un secondo all’altro e di morire insieme, proprio come quei soldati un secolo fa.
Ed è proprio questo senso di autenticità che il film trasmette, perchè “Torneranno i prati” non è un film sulla guerra, ma sul dolore della guerra, il dolore di tutti quelle vite spezzate da una carneficina insensata.
In tanti hanno sporcato di rosso quella neve che presto li avrebbe ricoperti, per poi cancellarne il passaggio a primavera, col rifiorire della natura. “Di quel che c’è stato qui non si vedrà più niente, e quello che abbiamo patito non sembrerà più vero“, dirà un soldato nel film.
La pellicola è stata molto sentita da Olmi, che lo dedica al padre che diciannovenne prese parte ai combattimenti, infiammato dagli ideali eroici, e che ritorna a casa con un bagaglio di indelebili ricordi dolorosi.
Il film è uno spaccato di vita e di morte in un avamposto italiano sul fronte Nord-Est nel 1917 a ridosso della disfatta di Caporetto. Sull’altipiano di Asiago si svolge la vita minimale di una trincea bloccata da 4 metri di neve e abitata da personaggi di cui non verrà mai pronunciato il nome, consapevoli di essere stati messi in scacco dalla Storia. Che t’importa il mio nome? Grida al vento: “Fante d’Italia!” e dormirò contento.
Con toni rarefatti, evocativi, quasi da sogno e immagini poetiche e struggenti come quadri impressionisti (grazie alla fotografia di Fabio Olmi) siamo condotti dentro quella trincea a provare la paura, la solitudine, la fame, il freddo, la disperazione che vi regnano e in sottofondo il boato dei mortai.
Il tempo è scandito dall’avvicendarsi di cose minute, il rancio, ricevere la posta (unico momento in cui sono pronunciati i nomi dei soldati che smettono per un momento di essere dei numeri), aspettare il topolino che ruba le molliche di pane o la volpe che si apposta vicino al larice, esempi del fluire della vita, sorda ai gioci crudeli degli uomini.
Dolorosamente bello l’attacamento alla vita del conducente del mulo (Andrea Di Maria) che canta al cospetto delle montagne Tu ca nun chiagne. Le musiche di Paolo Fresu sono determinanti nel suggellare la potente carica emotiva del film.
In questa trincea arriva il maggiore Santamaria ad imporre la volontà degli alti comandi di trovare un nuovo punto di avvistamenteo per spiare la trincea nemica. Con lui un giovane studioso che poi si troverà a vestire i panni del “tenentino” (Alessandro Sperduti). Ad accoglierli un capitano febbricitante e disgustato dagli ordini criminali costretto ad impartire (Francesco Formichetti).
I nemici sono assenti, non vengono menzionati, il vero nemico sono i “nostri” che danno ordini sciagurati ed è nemica l’incapacità di ribellarsi agli ordini, perché “Non ci sono ordini quando un ordine è un crimine” dice il capitano e la ribellione si fa sacrificio per il soldato suicida.
Ma tanto chi sopravviverà morirà due volte, come scrive il “tenentino” nella lettera alla madre, che la conclude col compito più difficile che spetta ai sopravvissuti, quello di perdonare, perché “Se non sai perdonare, che uomo sei?”.
La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai
Toni Lunardi, pastore