Tennis, Wawrinka è “Stanifique” nel Roland Garros della caduta degli dei
Il 30enne svizzero, con un’impressionante prova di forza, strega Parigi e conquista il suo secondo titolo in uno Slam battendo in finale Novak Djokovic, a sua volta killer nei quarti dell’Ancien Règime parigino di Rafa Nadal
“Paris, nous avons un problème”. Le lacrime che sgorgano dagli occhi di Novak Djokovic sul palco del Court Philippe Chatrier, nel cuore del XVI arrondissement della Ville Lumière, al termine di 4 tiratissimi set di cappa e spada più 3 interminabili minuti di applausi del pubblico parigino, sono gocce che racchiudono l’imponenza della grande piena della Senna nel 1910. Lui, il n° 1 del mondo, il leader per diritto di ranking degli irripetibili Fab Four del tennis mondiale degli ultimi tre lustri; e quei fantasmi del Bois de Boulogne, la terza finale persa negli ultimi quattro anni, “Nole Senza Terra” e senza Grande Slam, anche ora che il rosso non è più solo il colore di quel terricolo non terrestre che risponde al nome di Rafael Nadal da Manacor, Baleari.
STANIMAL, STAN-THE-MAN, IRON STAN – Accanto a lui c’è Stanislas Wawrinka, per tutti Stan. Il vincitore del Roland Garros 2015, made in Losanna. L’uomo con più soprannomi che amici nel Player’s Box, colpa di un carattere non troppo empatico. Ma tra Stan e Nole, da sempre, c’è amicizia e rispetto, come ricorda lo stesso Djokovic prima di cedere il passo a colui che in poco più di tre ore lo ha privato della Coupe des Mousquetaires, 4-6 6-4 6-3 6-4 i parziali. Wawrinka non ha il pedigree dei Fantastici 4 (oltre a Djokovic, per inciso, Federer, Nadal e Murray), è il principe delle mine vaganti e delle contraddizioni tennistiche, psicologicamente imprevedibile talvolta anche per se stesso. Un anno fa, a Parigi, usciva al primo turno contro il modesto spagnolo Garcia-Lopez, peraltro pochi mesi dopo la vittoria del suo primo Slam in carriera, sul cemento dell’Australian Open (qui il nostro articolo del 2014), ai danni di Nadal.
Ebbene, 365 giorni dopo e in un lento ma costante alternarsi di buone apparizioni tra New York e Melbourne e vuoti di memoria altrove, Stan è tornato, anzi è diventato, “Stanifique”, letale attitudine mentale alla vittoria turno dopo turno (fuori, nell’ordine, Ilhan, Lajovic, Johnson, ma soprattutto Simon, Federer e Tsonga) unita ad un’esplosività tecnica che trova, nel rovescio ad una mano, materiale per le petizioni del WWF a difesa delle specie in via d’estinzione. L’atto finale sullo Chatrier è stato solo il compimento di una maestosa superiorità ai danni di un Djokovic mai alla deriva, ma semplicemente impotente di fronte al picco della gaussiana avversaria, tanto nel match quanto nel torneo. Il serbo è stato capace di approfittare dell’unico accenno di remissività dello svizzero nel settimo game del primo set, strappando il break decisivo per la conquista del primo parziale. Ma nei successivi tre set, qualche singhiozzo al servizio di Djokovic unito agli implacabili vincenti di Wawrinka hanno spinto, con la folata decisiva di rovescio, la coppa in direzione Canton Vaud. Che ne sarà di Stan il Rosso sul verde di Wimbledon tra 20 giorni? Posto lo scarso feeling dello svizzero con l’erba, la risposta vista la natura stessa del soggetto creerebbe parecchi imbarazzi persino a Delfi, zona Oracolo.
“ESSERE JOHN DJOKOVIC” E “IL FU MATTIA NADAL” – Pete Sampras, Stefan Edberg, Boris Becker, Novak Djokovic. Quattro leggende della racchetta, vincitori di titoli Slam in tre dei quattro punti cardinali del globo, eppure accomunati a loro volta dalla iattura in salsa parigina. Come nel film “Essere John Malkovich”, in cui gente comune riesce attraverso un condotto segreto a penetrare nella mente dell’attore hollywoodiano vivendone le esperienze sensoriali, ci vorrebbe un passe-partout per capire nella testa del serbo il “Nole che verrà”, a Wimbledon dov’è atteso alla riconferma quanto tra un anno nuovamente in Francia alla caccia dell’ultimo maledetto Slam. Certo, rimane cospicuo il peso specifico di un torneo perso dopo aver detronizzato l’ex “Re Sole” Nadal nei quarti e il miglior Murray di sempre sul rosso nel penultimo atto.
Per il mancino iberico, la sconfitta all’ombra della Tour Eiffel rischia di essere la conclusione pressochè definitiva dell’era da bulimico cannibale della terra, il curtain calls (non in senso lato, ma parigino) di una leggenda che ha “arredato” per quasi 10 anni lo Stade Roland Garros alla stregua del proprio salotto buono maiorchino. Quello patito contro Djokovic (7-5 6-3 6-1 a favore del serbo) è il secondo stop nelle 72 apparizioni di Rafa al secondo Slam stagionale, un unicum negli anni 2010 dopo il k.o. nel quarto turno 2009 contro lo svedese Söderling. Poi solo storie di trionfi e moschettieri, nove totali, sino all’exploit di Nole sullo Chatrier. Lo spagnolo, arresosi dopo un cammino piuttosto tranquillo nei primi quattro turni (Halys, Almagro e Kuznetsov demoliti in tre set, Sock in quattro) non ha voluto farne un dramma – “Non è stata la fine del mondo dopo la sconfitta 6 anni fa con Söderling, non lo è neppure ora” – ma è chiaro che l’abdicazione proprio nel giorno del suo 29° compleanno rischia di complicare ciò che già il maledetto ginocchio ballerino ha reso più difficile da quasi due anni a questa parte. Senza contare che ora il ranking lo pone malinconicamente al 10° posto, al limite del peggior piazzamento da 10 anni a questa parte. Rimane il quesito più importante: qual è il vero Nadal tra l’indomito trionfatore post-infortunio di un anno fa e il discontinuo terraiolo di questa stagione? Probabilmente la risposta è, come sempre, nel mezzo: Nadal può rimanere ultracompetitivo sulla terra, ma se Djokovic, Wawrinka e ora pure Murray non dovessero entrare in serie crisi di forma e di identità…
OLD AND GOLD – Già, perché come accennato in precedenza, al gruppo della “red army” si è aggiunto quest’anno pure sir Andy da Glasgow, l’eroe nazionale dell’erba di Sua Maestà, che grazie alla sinergia con la coppia di coach Mauresmo-Bjorkman ha definitivamente curato la sua classica allergia da terra di metà stagione. I risultati raggiunti sinora – senza dimenticare la finale dello Slam australe persa con Djokovic – parlano chiaro: Monaco di Baviera e, soprattutto, il Masters 1000 di Madrid in finale contro Nadal hanno proiettato Andy, per la prima volta, da autentico protagonista al Roland Garros con i primi due titoli in carriera sul rosso a 28 anni. E a Parigi si è pure presso il lusso di sbattere fuori uno stakanovista come Ferrer ai quarti in quattro set (7-6 6-2 5-7 6-1) prima di arrendersi solo al quinto, ad un passo dal valhalla, contro Djokovic (3-6 3-6 7-5 7-5 1-6). Quasi impensabile, per il figlio adottivo di Wimbledon tormentato dalla spalla malconcia e dalle incertezze dopo l’addio di coach Lendl.
A proposito di nuove-vecchie certezze, a Parigi si è rivisto in semifinale Jo-Wilfried Tsonga, a due anni dalla sconfitta al penultimo atto contro Ferrer. Eliminare con (relativa) facilità Berdych (3-6 6-2 7-6 6-3) e Nishikori (6-1 6-4 4-6 3-6 6-3) tra ottavi e quarti di finale, di questi tempi, è tanto improbo quanto tentare di fermare il Wawrinka furioso ad un passo dalla finale, così come è stato. Alla deriva le speranze transalpine di un giocatore bleu in finale 27 anni dopo Henri Laconte, per non parlare dell’ultimo successo sulla Chatrier a cura di Yannick Noah nel 1983, Tsonga ha riconquistato l’affetto e l’attenzione del suo popolo nonché il margine della Top Ten. Ora è dodicesimo, a meno di 400 punti da Nadal. Alzi la mano, ma basta anche solo una falange, chi ci avrebbe scommesso ad inizio anno ed a questo punto della stagione.
LES ITALIENNES – Per gli amanti della politologia, sarebbe tornato utile il voto palese anche alla vigilia di un Bolelli-Ferrer da terzo turno, sul tema: “riuscirà il nostro eroe a portare a casa più di 6 game in totale?”. Lasciate ogni scommessa, voi ch’azzardate: Simone è riuscito nell’impresa di mettere alle corde il bombardiere valenciano per gran parte del match, arrivando a condurre per 2 set a 1 (3-6 6-1 7-5) prima della razione rabbiosa del 33enne di Jàvea (6-0 6-1) in grado di spegnere anche il più fioco dei lumicini di speranza. La qualità del gioco e della lotta del bolognese, ultimo nostro portacolori rimasto in gara, è una delle istantanee azzurre più belle di un tabellone quantomai ricco di presenze. Nel primo turno Lorenzi si è arreso con onore al quinto set contro Mueller, mentre Vanni e Seppi hanno gettato lo spugna al cospetto dei coriacei Isner e Tomic. Il solito Fabio Fognini è riuscito ad agguantare un secondo turno ceduto però troppo in fretta, anche per colpa della forma fisica precaria, a Benoit Paire. Certo, quando i difetti classici del ligure si combinano pure a guai ben poco imputabili, il risultato può essere uno solo.
HISTORY CHANNEL – Il posto d’onore sul palco di una immaginaria “Casa Azzurri” parigina lo merita però senza dubbio alcuno Andrea Arnaboldi. Il 27enne milanese non solo è riuscito a guadagnare il suo primo accesso in carriera al tabellone principale di un torneo ATP e di uno Slam contemporaneamente, ma lo ha fatto con un’autentica impresa da libri di storia del tennis contro il francese Herbert. 6-4 3-6 27-25 con 71 game in 4 ore e 30 minuti per un match da record, il più lungo di sempre e con il maggior numero di game mai giocati sulla distanza di 3 set. E una volta dentro, Andrea si è pure preso il lusso di eliminare al primo turno l’australiano Duckworth in un’altra maratona (stavolta in cinque set, 4-6 6-7 7-6 7-6 6-0) prima di alzare bandiera bianca in 3 set contro il campione di Flushing Meadows Marin Cilic. Il cuore oltre l’ostacolo, perché campione è chi il campione fa.