Il femminismo e la vivisezione
Scienza ed etica contro la vivisezione del femminismo e i parallelismi con la violenza sugli animali in Gran Bretagna tra il 1870 e il 1910 nel saggio di Bruna Bianchi, “Come i secchi nel pozzo”
di Gaia Cacace
Il saggio di Bruna Bianchi “Come i secchi nel pozzo”. Scienza ed etica negli scritti contro la vivisezione delle femministe britanniche (1870-1910) (disponibile qui) ripercorre gli scritti e il pensiero del femminismo inglese che tra la seconda metà del 1800 e gli inizi del ‘900 criticò la vivisezione e la violenza sugli animali, contrastando medici e studenti, politica e modi di pensare che spesso le deridevano e giudicavano inammissibile persino una sua regolamentazione.
La prima frattura, fondamentale, è data dal progresso: economico, urbano, intellettuale. Progresso che vede lo spostamento dalle campagne alle città, un ampliamento del potere d’acquisto delle classi medie e uno sfruttamento degli animali sempre maggiore, sempre più visibile, più vicino, mentre la pratica della vivisezione, che non era nuova nel 1800, dopo che fu istituzionalizzata cominciò a diffondersi incessantemente, e così cominciarono anche a nascere i primi movimenti di protesta.
La dicotomia, la frattura che origina il pensiero di queste femministe, e da cui si parte, è quella scienza/etica, onnipresente in tutto il libro: le donne, che si consideravano portatrici di un messaggio morale, meglio potevano capire la condizione degli animali, e proprio per questo spettava a loro proteggerli, anche contro quella che Frances Power Cobbe, femminista antivivisezionista, aveva definito la “Religione del Futuro”: la scienza che cancellava i valori, e “riduceva ogni cosa ad un principio utilitaristico[1]”, eliminando una propria considerazione critica.
Le analogie tra donna e animale sono molteplici, ed affiorano la prima volta – ce lo ricorda l’autrice – solo nel 1751, quando William Hogarth raffigura ne I quattro stadi della crudeltà, la violenza, perpetrata prima nei confronti degli animali, poi delle donne. Ma di comune, tra condizione animale e condizione femminile, c’è l’assenza di diritti, praticamente totale per le donne d’allora, che ancora ambivano ad essere considerate degli individui. Di comune c’è la violenza, subita allo stesso modo e ugualmente legittimata (l’autrice in proposito cita la letteratura e gli spettacoli che presentavano una “moglie-megera che ben meritava la sua sorte[2]”). Di comune anche la violenza che entrambi subivano per mano dei medici, e le donne povere in particolare. Ma di comune c’è soprattutto un fattore, che unisce tutti gli altri: le donne, così come gli animali, erano visti come degli esseri inferiori, e in ultima analisi questa era una legittimità che si basava su principi divini[3].
Cobbe fu la prima a paragonare la violenza compiuta sugli animali alla violenza subita dalle donne, sia tra le mura domestiche sia ad opera dei medici, attuando così un’estensione del pensiero che accomunava e continuerà ad accomunare numerose femministe (come le donne aderenti alla WILPF, la Women International League for Peace and Freedom, nata nel 1919) che avevano messo in relazione la violenza e l’assenza di emancipazione femminile: la donna poteva ambire agli stessi diritti degli uomini solo in una società pacificata, dove non vi fossero più stati conflitti né crudeltà. Prima del pericolo di una nuova guerra, però, le donne erano già molto attive nella società, al punto che le organizzazioni animaliste ne erano composte in larga maggioranza.
Basti pensare alla Society for the Protection of Animal Liable to Vivisection (nata nel 1875 per opera della stessa Cobbe) che contava il 70% delle donne tra i membri, o alla Women’s Vegetarian Society, fondata nel 1898. La paura era che cominciare a praticare la vivisezione sugli animali portasse all’indifferenza di medici e studenti verso il dolore provocato agli altri, e che questo potesse essere esteso presto anche agli esseri umani, e prima di tutto alle donne, anche perché considerate meno sensibili al dolore.
A parte una grossa vittoria, ottenuta grazie a Cobbe, nel 1874, con una legge che finalmente proteggeva la donna dagli abusi del marito, non si riuscì a far nulla quantomeno per regolamentare la pratica della vivisezione, per renderla meno dolorosa: nel 1876 una legge la consentì senza alcun utilizzo di anestetici, grazie anche all’appoggio di Charles Darwin.
La conclusione, che forse siamo abituati a vedere tutti i giorni, al punto da esserne in larga misura assuefatti, è che oggi “sperimentazioni sui viventi e vivisezioni non hanno cessato di aumentare[4]” ma, la frattura sul piano etico si è oramai allargata a dismisura, avendo l’etica lasciato il passo ad una morale diversa, che niente ha a che vedere con quella tanto cara a queste femministe, una morale nella quale l’oggettivazione di cui parlavano ha preso il sopravvento: è la morale capitalista. E oggi la frattura è praticamente un baratro, poiché agli estremi si sono portati avanti quegli ideali, non più per una ricerca di progresso, ma per ragioni di arricchimento individuale.
Se oggi esistono quelli che Alicia H. Puleo, filosofa argentina e professore in diverse università spagnole, nella presentazione del numero della rivista DEP (“Deportate, esuli, profughe”) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia (qui il link) dedicato agli animali, ha definito “dei campi di sterminio” è solo dovuto al fatto che etica e morale non possono coesistere con un sistema materialistico ed estremamente superficiale. Come il nostro. Oggi non è più soltanto la vivisezione a doverci preoccupare, ma anche gli allevamenti intensivi, delle vere e proprie prigioni di condannati a morte, e deve preoccuparci ancor di più per il loro numero spropositato. Così come, a mio avviso, deve preoccuparci la sostanziale indifferenza degli individui sulle questioni che riguardano l’alimentazione.
Il saggio, davvero interessante e in qualche modo estremamente attuale, ci fa conoscere un pensiero di cui non si sa quasi nulla. Ci consente di ragionare sullo sfruttamento degli animali in una dinamica particolare: storica e insieme di genere, permettendoci di capire come mai oggi si sia arrivati ad uno stadio in cui la vita degli animali è relegata ad una sfera di cui si ha scarsissima conoscenza, sfera all’interno della quale gli animali sono perlopiù trattati come esseri (o meglio ancora merci) senza alcuna coscienza: il problema è prima di tutto etico, morale. Una lettura indispensabile.
[1] Bruna Bianchi, “Come i secchi nel pozzo”. Scienza ed etica negli scritti contro la vivisezione delle femministe britanniche (1870-1910), in “DEP”, n. 23, p. 26.
[2] Ibidem, p. 14.
[3] Sulla legittimità divina alla domesticazione e sottomissione degli animali, ibidem, p. 7.
[4] Ibidem, p. 31.