La macchina mediatica di Hezbollah contro l’Isis
A partire dagli anni ’90, il “Partito di Dio” ha organizzato una strategia mediatica fondata su unità specializzate, tour per giornalisti e media auto-gestiti. Tuttavia diventa sempre più difficile presentarsi come difensori dell’unità nazionale libanese alla luce del coinvolgimento in Siria con gli Assad e in Yemen con i ribelli Houti
Hezbollah, letteralmente il “Partito di Dio”, rappresenta un attore peculiare nello spettro della politica internazionale: in Occidente è conosciuto come un gruppo terroristico islamista, ma la realtà è decisamente più complessa.
L’elemento che caratterizza Hezbollah è, infatti, la molteplicità di influenze, attività, rapporti che hanno segnato il suo sviluppo dai primi anni ’80, quando si trattava di una milizia armata sciita contrapposta all’esercito israeliano che occupava il sud del Paese, attraverso gli anni ’90, quando per la prima volta ha rinunciato all’obiettivo di realizzare uno stato islamico sul modello Iraniano per concorrere in elezioni democratiche, fino agli anni 2000 che hanno rappresentato il periodo di maggior successo regionale dell’organizzazione – benché il nuovo millennio abbia posto delle profonde sfide alla sua stessa identità.
Sin dal suo Manifesto del 1985, il “Partito di Dio” è stato capace di combinare l’attività di “resistenza” contro l’oppressore israeliano con lo sviluppo di un’ampia rete di servizi sociali sul territorio, laddove lo stato centrale non riusciva ad arrivare. Condizionata anche dall’ostile rapporto con Israele, Hezbollah ha elaborato a partire dagli anni ‘90 un’ampia e composita strategia mediatica, orientata ad un duplice obiettivo: da un lato, indebolire Israele colpendo direttamente la sua opinione pubblica, dall’altro promuovere e rafforzare la legittimità dell’organizzazione in sé a livello regionale ed internazionale.
La strategia prevede l’utilizzo di diverse Unità preposte ad obiettivi specifici, come la Hebrew Monitoring Unit che ha il compito di monitorare costantemente i media israeliani e di produrre contenuti in ebraico o sottotitolati da mandare in onda sulla propria televisione (visibile anche su buona parte del territorio israeliano), oltre che a un ampio numero di mass media tra i quali emerge Al Manar, la televisione di Hezbollah.
Fondata nel 1990 e dal 2000 disponibile anche via satellite, Al Manar rappresenta uno specchio dei punti di forza e di debolezza della sua organizzazione “madre”. La sua programmazione settimanale è infatti composta, da un lato, da programmi che vedono la partecipazione di ospiti di confessioni religiose diverse oppure diretti ad un pubblico di donne e giovani, mentre dall’altro viene proposta sugli stessi schermi la violenza verbale che caratterizza i video propagandistici e le dure immagini dei telegiornali.
La strategia mediatica di Hezbollah, rafforzata dall’attività di Al Manar, è fondata sul tema della “resistenza” contro un “oppressore” che, tradizionalmente, nella narrativa islamista degli Sciiti rappresenta un nemico da sconfiggere. Il nemico per eccellenza in questo caso è Israele, mai menzionato direttamente ma annunciato come “Entità sionista”, accompagnato talvolta dagli Stati Uniti, il cui ex Presidente George W. Bush è stato, per esempio, accostato ad Adolf Hitler. Il tema della “resistenza”, inserito in questo contesto fortemente impregnato dall’Islamismo, è centrale anche nella definizione stessa dell’identità di Hezbollah e nella giustificazione della propria attività. Inoltre, vista la sua adattabilità a diversi contesti, questo frame si è dimostrato particolarmente efficace tanto da essere presente in maniera trasversale in ogni attività mediatica dell’organizzazione.
Comunicazione e identità intrattengono una relazione interdipendente, poiché è attraverso i mass media che il “Partito” continua ad affermare e giustificare la propria esistenza. La macchina, tuttavia, affronta oggi una delle sfide più complesse. La presenza di miliziani di Hezbollah in Siria al fianco dell’esercito fedele ad Assad è ormai una certezza a cui si è aggiunto il recente coinvolgimento in Yemen in supporto agli Houti, ribelli sciiti.
Quando il “nemico” era soltanto Israele, gli strateghi di Hezbollah erano riusciti a definire facilmente la Repubblica Ebraica come “oppressore” e il Libano intero, sunniti, drusi e cristiani compresi, come “oppressi”. Questa dicotomia, eredità dell’Islam sciita, perde di efficacia non appena è il “nemico” a cambiare. Nel contesto siriano, il “Partito di Dio” è molto attivo, militarmente, nella valle di Bekaa e nella regione di Qalamoun contro l’Isis e il suo alleato Al Nusra, originariamente il braccio siriano di Al Qaeda.
Tuttavia molti libanesi non hanno dimenticato che, schierandosi con il governo di Damasco, Hezbollah ha combattuto anche le forze di opposizione non islamiste. Difficile giustificare la lotta di “resistenza” contro gruppi pacifici, non estremisti e molto vicini a ampie porzioni della popolazione libanese. E ancora più complicato definire come “oppositore” l’Arabia Saudita, attaccata duramente per i bombardamenti su Sanaa.
In sintesi, l’immagine di difensore dell’integrità libanese e promotore della resistenza al nemico funziona finché ci si difende effettivamente da Israele, ma non è altrettanto efficace quando il “Partito” interviene in maniera offensiva fuori dai confini nazionali e contro gruppi non riconducibili alla “entità sionista” a lungo contrastata.
La strategia di comunicazione di Hezbollah si conferma efficiente e fondata su schermi (la “resistenza” e il dualismo tra oppositori e oppressi) particolarmente solidi. Grazie alle clip trasmesse sulla televisione Al Manar e ai tour nelle zone controllate dalle milizie organizzati per i giornalisti stranieri, il “Partito di Dio” mantiene un controllo quasi monopolistico sull’informazione, tuttavia questa volta potrebbe non essere sufficiente.
Il coinvolgimento in Siria e Yemen incoraggiato dall’Iran e finalizzato a sostenere gli Sciiti nei due Paesi rischia di infrangere quell’ombrello di unità nazionale libanese che riusciva a giustificare, almeno agli occhi di una parte della popolazione, l’azione militare extra-governativa ai confini del paese. Per respingere le accuse di foraggiare le divisioni settarie, Hezbollah è impegnato a sottolineare la minaccia che gli jihadisti apportano alla struttura multi-culturale e religiosa del Libano: un messaggio decisamente più debole di quello che ha permesso al “Partito” di affermarsi nella guerra mediatica contro Israele a partire dagli anni 90 e di rafforzare la sua reputazione. Le recenti crisi regionali permetteranno di mantenere l’importanza regionale conquistata oppure l’interventismo porterà Hezbollah sul viale del tramonto?