La costruzione della realtà secondo Florence Henri
Fino al 31 agosto nelle Grandi Aule del Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano la mostra monografica dedicata all’artista Florence Henri
Al Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano della Capitale, in quelle che sono definite “Grandi Aule”, ossia i grandiosi vani che circondano gli ambienti del calidarium, tepidarium e frigidarium, una personale dedicata alla poliedrica artista Florence Henri (1893- 1982), che con il suo linguaggio visivo, a cavallo delle due guerre, ha infuso alla fotografia gli echi delle avanguardie artistiche che aveva frequentato sin da adolescente e i prodromi di quelle a venire, precorrendo i tempi in molti modi differenti, innovando sensibilmente la fotografia del Novecento.
Cubismo, Costruttivismo, Bauhaus, Surrealismo sono le correnti che attraversano l’opera di questa artista che sin da ragazzina è stata circondata da artisti, intellettuali ed esponenti dei movimenti artistici più innovativi.
Nata a New York nel 1893, cosmopolita per vocazione, rimasta orfana raggiunge una zia a Roma, grazie alla quale entrerà in contatto con artisti come Filippo Tommaso Marinetti, Gabriele D’Annuzio e altri esponenti delle avanguardie artistiche, inaugurando una consuetudine che non l’abbandonerà nei suoi successivi spostamenti a Berlino e a Parigi, dove intercetterà, come allieva o come amica, i grandi nomi dell’arte dell’epoca.
Florence Henri esprime lei stessa una creatività multisfaccettata. Prima studia al Conservatorio di Londra e all’Accademia di Santa Cecilia e inizia la carriera di musicista. Poi si fa strada la passione per la pittura e inizia a seguire i corsi di Paul Klee e di Vasilij Kandinskij al Bahaus di Weimar e quello di Josef Hoffmann a Monaco di Baviera. Successivamente scatta la curiosità per la fotografia, e a Parigi inizia a sperimentare il mezzo con i celebri autoritratti allo specchio.
Il 1928 è l’anno decisivo, quando László Moholy-Nagy esponente del Bauhaus le dedica un contributo critico alle sue composizioni astratte nella rivista I 10. L’anno successivo, la grande crisi la spinge ad aprire uno studio di fotografia e a realizzare lavori per la pubblicità e la moda, ma anche reportage e ritratti. Parallelamente dà lezioni di fotografia e il suo atelier parigino diventa celebre, alla stregua di quello di Man Ray.
Grazie al lavoro di ricerca di Giovanni Battista Marini che cura la mostra, ben 140 fotografie raggruppate in cinque sezioni attendono il visitatore per documentare le sperimentazioni tecniche dell’artista, che con la sua complessa produzione influenzò il linguaggio visivo del Novecento.
Florence Henri inventa un linguaggio nuovo, per produrre (alla stregua di un pittore) la realtà e non per immortalarla pedissequamente e come dice lei stessa: <<Vorrei far capire che ciò che io voglio innanzitutto con la fotografia è comporre l’immagine come faccio con i quadri>>.
La composizione, la cura formale del setting, l’uso dello specchio, il fotomontaggio sono tutti strumenti per giocare con la realtà, che prima viene ridotta in frammenti e successivamente è ricomposta secondo una sintassi personale. Il corpus dei suoi lavori esplora la dinamica della percezione e si interroga sui limiti della fotografia, tra rappresentazione oggettiva e artificio. La realtà che viene fuori da questi lavori è ambigua.
Lo specchio, strumento caro al Bauhaus, non è utilizzato per creare effetti ottici ma per produrre asimmetria, per moltiplicare i soggetti presenti, con un effetto di disorientamento dello spettatore. Come negli autoritratti, dove l’artista utilizza sia lo specchio sia sfere di metallo a loro volta riflettenti per moltiplicare la propria immagine, che saranno un tratto epocale del modernismo. Giustapposizioni, cut-up, ombre profonde che frammentano l’immagine, sovraesposizioni. Lo stesso collage non è un omaggio ai Surrealisti, che lo usavano come chiave d’accesso all’inconscio, ma diventa uno strumento per esplorare la realtà e i suoi diversi pattern.
Il celebre autoritratto del 1928 contiene il tema dello specchio, indicatore di una ricerca d’identità, che si estende alle due palle d’argento che richiamano le rotondità del seno o dei testicoli e la stessa artista sembra essersi travestita, per giocare con i confini del genere e per interrogarsi sulla sua natura.
Come negli autoritratti dove Florence Henri utilizza make-up e costumi per giocare con la sua immagine e diventare contadina, oppure maschiaccio.
La serie Composositions Abstraites utilizza elementi concreti e quotidiani che vengono reinterpretati, creando nature morte dove il gioco di riflessi e di rimandi rendono questi oggetti banali simboli di qualcosa di misterioso e innaturale.
La sezione dedicata ai suoi viaggi a Roma utilizza cut-up delle architetture romane e dei fotomontaggi per ottenere delle immagini dal gusto romantico e sottilmente inquietante, dove si accentua un senso di perdita, di decadenza.
Anche i ritratti dei suoi celebri amici, come Mondrian e Kandinskij, e delle modelle dei Portraits D’artistes hanno una spontaneità del tutto nuova per l’epoca. Molti protagonisti sono fotografati insieme agli strumenti del loro lavoro.
Le immagini che popolano l’universo di Florence Henri non sono rassicuranti, non vogliono dare conferme, ma mostrano la realtà come un mosaico interpretativo sfuggente, basta spostare una tessera e i piani si sovvertono, realtà e fantasia si rincorrono.
Un’aggiornata ed esaustiva monografia edita da Electaphoto arricchisce l’approfondimento della vita e delle opere di questa innovativa artista del secolo scorso.