Libia, il rebus che nessuno sa risolvere
La paura di parlare e di commettere errori di valutazione è segno di una realtà buia come quella che la Libia vive da mesi. Fuochi su tutto il territorio seminano divisioni e lotta per il potere
Tobruk, la città sede del governo legittimo libico; Misurata, roccaforte di tribù e clan ribelli; Tripoli, casa delle milizie islamiche di Fajr Libia ed infine Sirte, nelle mani del Daesh. Il caos libico fa perdere l’orientamento e incute disillusioni su una possibile stabilizzazione dell’intero territorio.
Quattro tecnici italiani vengono rapiti alle ore 21 di domenica 19 luglio nella zona di Melittah, non distante da Tripoli. Area insicura, senza governo, senza controllo, un luogo nel quale se sparisci sono davvero in pochi ad accorgersene. Quella Libia da sempre storicamente legata all’Italia, è ancora una volta un incendio indomabile che ci coinvolge in prima persona. La Libia della dittatura di Gheddafi, durata e perseverata per anni ed anni fino al suo epilogo più tragico che ne ha visto la morte ma anche una possibilità di rinascita di un paese e di un popolo tenuto in gabbia per troppo tempo.
Quella stessa possibilità di ricostruzione civile, politica, economica, di diritto, non ha mai visto posizionare il suo primo mattone. Il caos ha generato altro caos e tutto questo conseguentemente ad un intervento rigido e fermo della comunità internazionale che con i suoi militari ha raso al suolo il passato senza pensare al presente né tanto meno al futuro della Libia.
Il nostro servizio sull’incontro a Roma tra il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e l’inviato speciale ONU per la Libia Bernardino León
Capire la Libia significa capire il lungo cammino del nord Africa, quel vasto territorio che dalla fine della Prima Guerra Mondiale ha intrapreso la strada del capitalismo senza rendersene conto. Inconsapevolmente, già dai primi decenni del ‘900, si è messo nelle stretta morsa dell’Occidente affamato di petrolio.
La colpa si chiama forse oro nero, di cui quel Nord Africa è fonte primaria. La vendita dell’energia fossile allo stato puro, ha comportato l’arrivo di denaro, soldi che, molto, ma molto spesso, risultavano intangibili alla popolazione. La rabbia, la ribellione, l’insoddisfacente vita, la disuguaglianza palese: tutti terreni fertili per far coltivare una rivoluzione in questo mosaico di etnie, di tribù, di clan.
Gli anni Sessanta; la decolonizzazione, gli anni Settanta; la crisi petrolifera. Le guerre intestine e la presa di coscienza del concetto di popolo e di nazione, anche se disomogenee e spesse volte terre di agglomerati culturali e religiosi, figlie di incastri geografici europei, diversi, a tal punto da convivere a fatica, con sopportazione e sudore. Fino all’esplosione.
Primavera 2011, i popoli del Nord Africa e parte del Medio Oriente insorgono al grido di democrazia. Passeranno alla storia come “Primavere Arabe”, anche se ad oggi, quattro anni dopo le rivoluzioni contro regimi e discriminazioni di vario genere, la paura dell’ assenza di libertà circola ancora tra quelle stesse strade prima calpestate dai giovani cittadini del Mondo.
Il Daesh avanza, gruppi islamici di vario ramo dottrinale si danno la caccia per la conquista del potere e del controllo territoriale, i governi sono fantasmi e la comunità internazionale cela una timida presa di posizione contraria alla violenza, alla distruzione, alla guerra.
Il luogo del rapimento dei quattro tecnici italiani, Melittah, è cassaforte dell’energia e si trova a pochi km da Sabratha, base di appoggio dello Stato Islamico, un punto debole tra la Tunisia del Sud e la Libia occidentale.
Salvo Failla, 47 anni, siciliano di Carlientini, provincia di Siracusa; Gino Pollicardo di origine ligure, cittadino di Monterosso, una delle perle delle Cinque Terre; Filippo Calcagno, 65 anni di Piazza Armerina (Enna), ed infine Fausto Piano, meccanico di 60 anni cresciuto in provincia di Cagliari. Questi nomi sono volti, mani, piedi che dopo anni di esperienza, si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Dipendenti della Bonatti SpA, azienda che gestisce mille lavoratori solo nel territorio libico, e lo fa da più di 36 anni. Olio e gas sono le materie prime e la fonte di guadagno della Bonatti per le costruzioni edili e infrastrutturali dei principali centri petroliferi internazionali. Anche questa volta l’oro nero e il filo spinato degli interessi commerciali resta immune e impavido di fronte ai pericoli di un Paese allo stremo delle forze e in ginocchio a poteri contrastanti e in lotta tra loro.
Martedì 20 luglio, Bernardino León, inviato speciale ONU per la Libia, ha fatto visita a Roma incontrando il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Un colloquio a porte chiuse, durato quasi un’ora e collimato da una conferenza stampa breve e formale nella quale, al di là della condanna espressa per l’atto del sequestro, e di qualche parola di conforto sull’operato del ministero e dell’ONU per la liberazione dei dipendenti della Bonatti, nessun dettaglio o informazione rilevante è emersa da nessuna delle due autorità.
Il ministro Paolo Gentiloni sembrava voler deviare domande eccessivamente dirette sull’argomento, quasi a mostrare disagio per una situazione più complessa e contorta di quel che possa apparire. “Prematuro dare interpretazioni politiche sull’accaduto, anzi direi che è imprudente”, così ha commentato il ministro.
Ecco quindi la realtà, l’imprudenza nel parlare troppo e troppo presto dal giorno del rapimento, perché è meglio non esporsi, è meglio camminare cautamente. Bernardino León ha sottolineato l’intenzione dell’ONU di non scendere a “condizioni” per la richiesta di liberazione. Gentiloni non ha parlato di trattative, né tanto meno di ipotesi riscatto, ma per questo è ancora acerba la vicenda – soprattutto quando mancano elementi fondamentali per capire chi ha agito, come e perché quattro cittadini italiani sono stati vittime di un sequestro mentre svolgevano il loro lavoro da esperti del settore.
Ancor di più ci si chiede come sia possibile che aziende di levatura cosi alta, con un passato cosi radicato sul territorio libico da conoscerlo quasi alla perfezione, continui impavida le sue attività. Nel 2011 la Bonatti fu la prima impresa italiana di costruzioni a far rientro in Libia, in piena invivibilità e caos. A difendere e “garantire” sicurezza agli impianti aziendali, ci pensano le forze di sicurezza libiche, anche se stavolta non è bastato, nonostante la solida organizzazione e gestione di aziende internazionali come al Bonatti.
Questo gelo trapelato dal palazzo della Farnesina è chiaramente specchio della poca chiarezza sui fatti accaduti e di un tentativo di allungare i tempi per evitare il peggio e cogliere una ipotesi sbagliata tra le tante possibili motivanti il rapimento.
Soldi per le tribù? Vendetta jihadista contro il governo italiano? Diatriba tra fazioni islamiche per il controllo di Mellitah? Scambio di esseri umani tra gruppi tribali nella perdizione del deserto libico?. Troppo pericoloso esporsi ora, certo è che si prosegue con il tentato dialogo per l’accordo tra le componenti di potere in Libia. León è parso fiducioso nell’intesa e nella formazione di un unico e solido governo non escludendo però una missione civile e presenza di militari internazionali con bandiera ONU, per monitorare e sostenere chi andrà alla guida del Paese.
Il ministro Gentiloni, è stato chiaro: chi boicotta l’accordo verrà isolato. E dalla Libia di oggi ci si può aspettare di tutto.