Questione meridionale: 142 anni di inconcludenza

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Il rapporto Svimez riaccende i riflettori  sulla “questione meridionale” e sull’enorme divario tra nord e sud Italia. Negli ultimi anni media e politica hanno accantonato il problema, che c’è, persiste e anzi peggiora

di Marco Assab

Questione meridionaleUna storia vecchia – La “questione meridionale” viene sollevata per la prima volta da un deputato radicale di nome Antonio Billia. Quaranta, cinquant’anni fa? No: 142 anni fa, nel 1873. Il problema del Meridione sottosviluppato e del suo gap con le regioni del nord è vecchio quanto l’Italia stessa. Il grande rischio però, quando si affronta questo tema, è di scivolare in interminabili disamine di carattere storico sulle origini del fenomeno. Si contrappongono diverse scuole di pensiero, ma in questa sede non ci interessa se il Regno delle Due Sicilie sia stato o no defraudato delle sue ricchezze dai malvagi piemontesi, o se i Borboni regnassero già su una terra sottosviluppata rispetto al nord (sono vere entrambe le cose). Il dato di fatto è che oggi, nel 2015, l’Italia è unita da 150 anni e persiste un grave divario economico tra il nord e il sud del Paese, accantoniamo le speculazioni storiche (detto da un grande appassionato di storia) e concentriamoci sul presente.

Il rapporto Svimez: grazie! – La Svimez è l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. Ebbene vanno sentitamente ringraziati, perché gettano nuovamente luce su un dramma che, da un po’ di anni a questa parte, era stato decisamente accantonato. Della “questione meridionale” non si parlava più, sparita dai media e dall’agenda politica. I dati emersi dallo studio sono sconfortanti (clicca qui per il comunicato stampa). Li riassumiamo in pochi punti:

  • Prodotto interno lordo del sud ancora in negativo per il settimo anno consecutivo;
  • Durante la crisi economica (2008-2014) i consumi delle famiglie sono scesi del 13%;
  • Nello stesso periodo gli investimenti nell’industria sono crollati del 59%;
  • Il 62% dei meridionali (nel 2014) guadagna meno di 12 mila euro annui;
  • A rischio povertà 1 persona su 3. La Sicilia è la regione con il più alto rischio, seguita dalla Campania.

Ragioni del sottosviluppo: fattori endogeni ed esogeni – Non ci voleva lo Svimez per segnalare a Roma la gravità della situazione. Il problema lo si conosce benissimo, ma forse dobbiamo credere che non sia più prioritario, quasi come se una strisciante rassegnazione avesse paralizzato l’iniziativa politica in questo senso. Anzi, negli ultimi anni si è fatta strada una preoccupante convinzione nell’opinione pubblica: i mali del sud sono colpa del sud stesso e basta. Questo è solo in parte vero. Concorrono certamente nel mantenere questo stato di cose diversi elementi endogeni: classi politiche tutt’altro che virtuose; incapacità di sfruttare a pieno le potenzialità del territorio; il cancro chiamato mafia, fenomeno che non è solo criminale in senso stretto, ma anche culturale.

Eppure, accanto a questi elementi interni, vi sono anche gravi responsabilità da parte dello Stato centrale, che avrebbe il compito di correggere determinate storture, ma che a volte appare come spettatore passivo. Facciamo un banale esempio che ci sembra essere il più indicativo: quando si decideva la costruzione dell’alta velocità (realizzata da Salerno a Milano), uno Stato vigile e presente non avrebbe forse dovuto preoccuparsi del fatto che in Sicilia la rete ferroviaria (costruita nella seconda metà del 1800) è, in larghissima parte, a binario unico e la velocità media raggiungibile è di 80/100 km orari? Lo Stato italiano ha un serio piano di investimenti infrastrutturali per il rilancio del Mezzogiorno? Non ci sembra.

emigrazioneIl fenomeno dell’emigrazione – Oltre ai sopracitati problemi ve ne è un altro che, a nostro avviso, è di assoluta gravità. L’emigrazione massiccia di giovani che, dal sud Italia, si spostano nel centro-nord o, peggio ancora, vanno all’estero. Questi ragazzi che ogni anno vanno via potrebbero essere la futura classe dirigente, le risorse umane migliori sulle quali il Meridione potrebbe contare e che invece lo abbandonano. Sono costretti a farlo. Ripetiamo: costretti. Non solamente perché manca il lavoro, altresì perché il divario tra nord e sud si percepisce anche nel livello qualitativo delle strutture formative, in questo caso le università. Che futuro può avere dunque una terra dove i migliori se ne vanno? Nessuno. Come si rinnova la classe dirigente del sud? Con quello che rimane o, semplicemente, non si rinnova. Lo Stato si è mai preoccupato di questo fenomeno che, negli ultimi 20 anni, ha ripreso vigore?

La madre di tutti i mali: la mafia – Lo Stato ha vinto molte battaglie ma non la guerra, dicevamo poc’anzi. Per capire come fare è necessario ricorrere ad una metafora: il paziente con la febbre alta va dal medico che gli prescrive solamente un antipiretico… la febbre scende temporaneamente ma presto risalirà. Occorre dunque agire alla radice, serve un antibiotico che elimini le cause della febbre. Il lettore avrà già compreso: la lotta alla mafia non può solo essere condotta a suon di manette e 41 bis. Sbattere in galera i mafiosi è “l’antipiretico”, in questo modo si argina il fenomeno, lo si ridimensiona, ma non si sconfiggerà del tutto perché tenderà a rigenerarsi se non si va alle radici.

Quali sono le radici? La povertà, la disoccupazione, il disagio sociale e lo stato di abbandono nel quale vertono molti quartieri delle grandi città meridionali. In un habitat simile il batterio “mafia” prolifera. Occorre igienizzare. Si dia alle genti del sud lavoro, casa, istruzione, e si vedrà come la mafia avrà vita molto più difficile nel reclutare nuovi “soldati”. Se invece si continuerà solamente a combattere il fenomeno sul fronte della giustizia avremo una mafia in stile Idra di Lerna (il mostro mitologico) al quale quando Ercole tagliava una testa gliene ricrescevano due.

In ultimo: meno autonomia – La Sicilia è una regione a “statuto speciale”. Gode dunque di particolari condizioni di autonomia legislativa, amministrativa e tributaria. Non ne comprendiamo il motivo. Oggi, nel 2015, questo stato di cose è del tutto anacronistico e non ha alcun senso anzi, aggrava la situazione. Spieghiamo il perché attraverso una metafora. In una classe la maestra (lo Stato) ha a che fare con alunni virtuosi (regioni del nord) e alunni poco virtuosi (regioni del sud), ebbene, quando gli alunni poco virtuosi si mettono a fare i compiti la maestra che fa? Li lascia da soli in piena autonomia? No perché sono incapaci! Gli sta dunque col fiato sul collo e controlla, col suo occhio vigile, che tutto sia fatto a regola d’arte. Regioni come Sicilia, Calabria e Campania (il lettore badi bene che chi scrive è siciliano!) non meritano autonomia alcuna, perché le classi dirigenti che si sono succedute negli anni hanno ampiamente dimostrato la loro inadeguatezza. Vorremmo dunque uno Stato centrale presente, vigile, fortemente interventista quando si ravvisano assurdità made in sud. E qui torniamo al discorso dei fattori endogeni ed esogeni: i problemi interni ci sono, ma lo Stato li corregga. Ne è capace? Finora no. E questo ha creato profonda disaffezione e diffidenza nelle genti meridionali. Ecco, la mafia prolifera anche qui, nella generale convinzione che lo Stato abbia abbandonato il sud, se ne sia lavato le mani. Fa più male di una coltellata sentire, nei quartieri più umili di città come Palermo o Catania, persone dire “la mafia ci da lavoro, lo Stato se ne frega”. Fa più male di una coltellata.

(fonte immagine: wikimedia.org)

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Una risposta

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