Al-Khansa, donne che torturano le donne
Si fanno chiamare “brigata Al-Khansa”, sono la polizia morale tutta al femminile dello Stato Islamico. Seminano il terrore nella capitale, Raqqa, punendo tutte le donne che non rispettano la Sharia, sotto la guida di Aqsa, 20enne originaria di Glasgow
Non è la prima volta che la donna viene sfruttata in guerra, ma le notizie che filtrano dall’interno dello Stato Islamico raccontano di un utilizzo sistematico di una parte della popolazione per un ventaglio davvero ampio di scopi. La scia di orrori dell’Isis sembra purtroppo non avere fine: dopo mesi di denunce e racconti, anche le Nazioni Unite hanno confermato che molte, moltissime, donne yadize sono vendute anche decine di volte come schiave sessuali della jihad.
Zainab Bangura, inviata speciale dell’Onu, durante un viaggio in Siria ed Iraq la scorsa primavera ha raccolto centinaia di storie come quella di una donna di soli 21 anni, venduta come schiava 22 volte in quattro anni a cui è stato sommariamente ricostruito l’imene ad ogni vendita per simulare la perdita della verginità. Ed è solo la punta dell’iceberg di una violenza quasi istituzionalizzata che sembra valicare ogni confine stabilito nel corso degli ultimi tre secoli di sviluppo umano. E’ una violenza cieca, crudele, disumana, ma che spesso coinvolge le donne stesse.
È il caso della “brigata Al-Khansa”, un gruppo di miliziane che ha il ruolo di controllare le altre donne affinché i loro comportamenti non contrastino la Sharia voluta da Isis. Il gruppo è guidato, tra le altre, da Aqsa Mahmoud, 20enne originaria di Glasgow dove è cresciuta e ha studiato nei migliori istituti della città. Oggi sorveglia i bordelli di Raqqa in modo che i combattenti abbiano sempre una donna disponibile per soddisfare i loro bisogni sessuali ed è una dei capi della brigata: è lei che si occupa del reclutamento di altre ragazze occidentali. Secondo uno studio pubblicato dal King’s College, sono una decina solo le donne britanniche che militano in questa polizia morale. Possiamo immaginare che si tratti di un gruppo formato da molte “foreign fighters”, donne e ragazze convertitesi alla causa di Isis e, quindi, ancora più impregnate dall’ideologia islamista professata nel Califfato.
Una volta attirate in Siria, vengono sottoposte ad un vero e proprio lavaggio del cervello ed incoraggiate a condividere sui social immagini e dettagli sulla loro nuova vita nello Stato Islamico. Ecco che si spiega l’orgoglio di Zahra, 16 anni e originaria di Manchester, che posa completamente nascosta dietro al velo mentre imbraccia un kalashnikov. Anche i ponti con le famiglie d’origine vengono spesso tagliati completamente: è la causa la nuova famiglia e il massimo onore è sposare uno jihadista, diventare quindi muhajirah e portare in grembo un figlio dell’Isis.
Non tutte le donne arruolate nell’Isis entrano nella brigata Al-Khansa, ma essa ha il compito di vegliare sull’intera componente femminile dell’Isis. Le funzioni vere e proprie delle donne di Al-Khansa sono diverse: da un lato, si occupano della custodia dei bordelli e degli ostelli dove arrivano le nuove reclute – che rappresentano una discreta fonte di reddito per le casse dell’Isis – dall’altro hanno un vero e proprio ruolo di polizia morale. Tocca a loro supervisionare l’applicazione della Sharia tra le donne che vivono tra Siria ed Iraq e prendere provvedimenti in caso di violazioni. Alcune testimonianze raccontano che queste donne stanno terrorizzando la città di Raqqa, capitale dello Stato Islamico: passano al setaccio la città completamente velate con i kalashnikov sotto braccio e nessun timore. Le motivazioni che possono costare l’arresto e la detenzione delle “stanze delle torture” possono essere di qualsiasi tipo: una ragazza di 24 anni racconta di aver subito il “biter”, un tipo di tortura medievale usato per strappare e dilaniare il seno, perché indossava un abito non appropriato – sorte simile è toccata ad una coetanea “beccata” a fumare una sigaretta.
Se allontanare le ragazze dalla scuola è un’altra delle attività, le donne di Al-Khansa hanno scritto e reso pubblico un decalogo, significativamente intitolato “Le donne dello stato islamico: un manifesto e un caso di studio”. All’interno del documento, lungo circa 30 pagine, sono elencati i comportamenti da tenere per non violare la Sharia.
L’educazione ha un ruolo marginale, tant’è che è previsto che le donne possano studiare dai 6 ai 9 anni, età in cui dovrebbero essere pronte a sposarsi. Solo le più pure possono aspettare i 15/16 anni. Una volta sposata, alla donna non restano molti buoni motivi per uscire di casa: studiare teologia, fare l’insegnante o il medico per donne, oppure andare a combattere, naturalmente. Interessante è che la condizione femminile di Raqqa venga paragonata con quella in Arabia Saudita, considerata fin troppo libera (sic!).
Del resto sotto la monarchia saudita le donne possono addirittura scegliere di non indossare un velo spesso tre strati e guanti per coprirsi le mani. Nel Califfato, invece, non è possibile affacciarsi alla finestra, indossare del profumo, muoversi senza la compagna di un componente uomo della famiglia. Umm Abaid è una ex-poliziotta della Al-Khansa, e ha raccontato alla tv britannica Channel 4 la sua vita prima di fuggire da Raqqa: “Chiunque non rispettasse le regole veniva frustato. Poi andavamo dal suo ‘guardiano uomo’, che poteva essere il fratello, il padre o il marito, e punivamo anche lui”. Una missione di vita più che un lavoro vero e proprio, perché non si smette mai di osservare, controllare, punire e torturare.
Chissà se anche Maria Giulia, la 27enne di Torre del Greco che ha lasciato l’Italia per unirsi all’Isis è tra loro, a controllare che gli abitanti di Raqqa siano abbastanza moralmente retti per lo Stato Islamico, a preparare le ragazze per essere “spose del Jihad”, a torturare barbaramente una coetanea colpevole di voler continuare la propria vita come prima. Ma prima, tra Iraq e Siria, non esiste più.