Profughi ambientali, un’emergenza non riconosciuta
Il riscaldamento globale pone nuove sfide alla comunità internazionale, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche sociale ed economico. Parliamo dei “profughi ambientali”, un’emergenza reale ma non riconosciuta dal diritto internazionale
Da cosa fuggono le migliaia di persone che abbandonano la propria casa per un futuro migliore? Fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni, dalle dittature; scappano dalla fame e dalla miseria. Ma c’è anche chi è costretto a lasciare il proprio territorio a causa degli effetti dei fenomeni ambientali che ne pregiudicano la sopravvivenza: terre sommerse dal mare, desertificazione, scioglimento dei ghiacciai. Sono i profughi ambientali, come Ioane Teitiota, originario dell’arcipelago delle Kiribati, che conta 32 atolli nel Pacifico ed è costantemente minacciato dall’innalzamento del livello del mare.
Nel 2013, Teitiota aveva presentato richiesta di asilo climatico al governo della Nuova Zelanda, sostenendo che, in caso di rimpatrio, lui e la sua famiglia avrebbero rischiato la vita. La sua richiesta non venne accolta e lui, nel 2014, fece ricorso alla Corte suprema. A luglio, l’ennesimo diniego ha cancellato ogni possibilità di ottenere l’asilo e diventare così il primo rifugiato climatico nel mondo.
Pur riconoscendo le sfide climatiche a cui va in contro Kiribati – che insieme alle Maldice, a Tuvalu e Tokelau potrebbe ritrovarsi sommerso a causa del riscaldamento climatico – la giustizia neozelandese non può riconoscere lo status di rifugiato climatico, poiché questo non rientra fra le categorie individuate dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che prevede protezione in caso di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche, appartenenza a un particolare gruppo sociale. Pur essendo migranti forzati, non vi è ancora nessun riconoscimento legale dello status di rifugiato climatico.
La vicenda di Teitiota e della sua famiglia – la loro è una delle oltre 17 richieste presentate negli ultimi vent’anni a Nuova Zelanda e Australia da parte di abitanti delle isole del Pacifico – riapre il dibattito sullo status dei profughi ambientali e sulle nuove sfide per la comunità internazionale. Secondo l’ultimo rapporto dell’IDC-Internal Displacement Monitoring Science del Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC), sono circa 19,3 milioni le persone che nel 2014 sono state costrette ad abbandonare la propria casa per gli effetti dei disastri naturali e di eventi atmosferici estremi.
A sottolineare le “gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche” dei cambiamenti climatici, è anche Papa Francesco, in “Laudato si’. Eciclica sulla cura della casa comune“. Nel primo capitolo del documento pubblicato a giugno, Bergolio denuncia le condizioni in cui si trovano i migranti in fuga per condizioni ambientali migliori. “È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa”.
È esplicito il riferimento alla “generale indifferenza di fronte a queste tragedie, che accadono tuttora in diverse parti del mondo” e alla responsabilità della comunità internazionale. “La mancanza di reazioni di fronte a questi drammi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile”. Il dramma dei profughi ambientali è infatti un’emergenza reale, con un numero di “profughi ambientali” che la Federazione Internazionale della Croce Rossa stima tra i 25 e i 50 milioni e che, nel 2050 potrebbe raggiungere i 200 milioni, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni-IOM.