Ankara, tra PKK e ISIS: cosa succede in Turchia?
Dopo l’attentato di Suruç la tregua tra autorità turche e il PKK si è definitivamente spezzata avviando una stagione di scontri, barricate ed insicurezza, mentre Ankara, ancora senza governo, bombarda contemporaneamente i curdi e l’ISIS
In queste ore due giornalisti britannici sono in mano alle autorità turche insieme al loro interprete, accusati di “terrorismo”. I reporter di VICE News stavano cercando di verificare le notizie che si rincorrono su ciò che sta accadendo nella provincia di Diyarbakir, nel sud est della Turchia, il cuore della zona curda dentro i confini turchi. La colpa dei giornalisti è aver preso contatti con alcuni esponenti del PKK – il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione politica e paramilitare considerata illegale in Turchia – ed esserci mossi per l’area senza autorizzazioni.
Soltanto un segnale di quello che sta succedendo nella calda estate turca, teatro di un complesso intrecciarsi di scontri più o meno clandestini. Il processo di pace tra governo turco e il PKK è ad un punto morto e l’attentato suicida al Centro di Cultura Amara di Suruç, il 20 luglio scorso, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
A Suruç sono morti più di 30 giovani, volontari della Federazione delle associazioni giovanili socialiste. I ragazzi, che si riconoscevano nelle proteste di Gezi Park – quindi non solo curdi – si erano dati appuntamento nella città per prepararsi ad una trasferta a Kobane. Proprio la città curda, simbolo della resistenza contro l’ISIS, era la loro meta, scelta perché l’impegno di questi studenti era quello di ricostruire gli ospedali, un parco, la scuola materna, una biblioteca.
Sogni ed entusiasmo mandati in frantumi dalla violenza dell’esplosione provocata da Şeyh Abdurrahman Eyüboğlu, uno studente come gli altri, ma “radicalizzato” in una sala da thé di Adıyaman gestita proprio da suo fratello maggiore. Proprio all’“İslam Çay Ocağı” i fratelli Eyüboğlu erano entrati in contatto anche con Orhan Gönder, il ragazzo ritenuto responsabile dell’attacco realizzato prima di un comizio dell’HPD, il partito filo-curdo democratico dei popoli guidato da Selahattin Demirtaş, alla vigilia delle elezioni del 7 giugno. I due attacchi hanno portato alla luce una rete di centri di reclutamento del Califfato a pochi chilometri dal confine con la Siria, una rete più volte denunciata invano dalla popolazione dell’area. Le denunce sono cadute nel silenzio e i morti ne sono conseguenza.
Sia il presidente Erdogan che il premier Davutoğlu hanno condannato l’attacco, ma sono in molti sul fronte curdo a rimproverare il governo di non aver protetto a sufficienza i ragazzi di Suruç. Due giorni dopo un gruppo di militanti del PKK si è infiltrato nelle case di due poliziotti turchi uccidendoli “per vendicare Suruç”. La tregua, legata a due anni di negoziati dal carcere del leader del Pkk Ocalan, è finita e così sono ripresi gli scontri.
Il 28 luglio, a Cizre, vicino al confine con la Siria, la polizia ha ucciso Hassan, un ragazzo di 17 anni, seduto sui gradini di casa mentre aspettava gli amici vestito secondo la tradizione curda.
Il 7 agosto, in uno scontro a fuoco tra un gruppo di giovani del posto e la polizia nel villaggio di Basak, vicino a Silopi, hanno perso la vita tre persone e sette sono rimaste ferite, tra cui due agenti.
Il 10 agosto, sempre nello stesso villaggio, il PKK ha fatto esplodere un veicolo militare con una mina uccidendo quattro poliziotti, mentre veniva fatta saltare in aria anche la stazione del quartiere Sultanbeyli di Istanbul e alcuni uomini prendevano di mira il consolato statunitense della città. Sempre nella stessa giornata è passata sotto silenzio l’esplosione di una bomba all’interno di uno dei tubi del sistema fognario di Sirnak, sempre nel sud est del paese.
Il 18 agosto un uomo è rimasto ucciso durante un’operazione guidata dalla polizia a Silvan, mentre un soldato turco ha perso la vita a Lice.
Il 19 agosto otto soldati sono stati vittime di un’esplosione nella provincia di Siirt e, dopo l’esplosione di una bomba, c’è stata una sparatoria fuori dal palazzo Dolmabahçe a Istanbul.
Il 24 agosto sono morti due poliziotti ed un soldato nella provincia di Diyarbakır.
Ankara ha reagito con un’ampia campagna di arresti che ha portato nelle carceri turche un numero di sospettati di collaborazione con il PKK sei volte superiori a quelli filo-ISIS. Non solo arresti, ma anche raid aerei con gli F-16 per stanare le roccaforti curde. Secondo la Anadolu Agency, l’agenzia di Ankara, ci sono stati oltre 400 bombardamenti che hanno ucciso più di 700 militanti del PKK sulle montagne di Qandil, nel Kurdistan iracheno a partire dalla fine di luglio.
C’è chi sostiene che la campagna di Erdogan contro i curdi sia una forma di avvertimento, mentre lo Stato islamico resta il nemico principale. Altri analisti sostengono, invece, che colpire i curdi sia l’obiettivo ultimo di Ankara per indebolire l’HDP e rafforzare la leadership del governo centrale. Il governo ha cominciato proprio in questi giorni a bombardare le postazioni dell’ISIS insieme alla coalizione internazionale, ma le barricate e lo spiegamento di forze di polizia in tutto il sud est del paese non fanno presagire un autunno tranquillo.
Il crescere delle ostilità riapre ferite mai sanate in Turchia costringendo, ancora una volta, i curdi a scegliere tra la lealtà ad uno stato guidato da un presidente divenuto ostile, o la difesa della propria comunità ed identità. In quella che Jasper Mortimer su Al Monitor definisce “palude di sangue, accuse e controaccuse” sembra che la tensione non possa fare altro che crescere.
A mescolare le carte in tavola ci pensa anche la politica: l’incertezza è all’ordine del giorno dopo le elezioni dello scorso giugno quando l’HDP ha conquistato il 13% dei voti, coinvolgendo e convincendo soprattutto molti giovani, e impedito indirettamente all’AKP del presidente Erdogan di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi, conditio sine qua non per modificare la costituzione in senso presidenziale – obiettivo nemmeno troppo nascosto dell’ex Primo ministro. In due mesi non è stato raggiunto alcun accordo per formare un governo non monocolore e, quindi, si tornerà a votare, probabilmente a novembre, in un clima di tensione e paura come non si percepiva da anni ormai. Chissà se il governo ad interim di cui fanno parte anche due esponenti del partito filo-curdo riuscirà a tenere la situazione sotto controllo. Difficile che il conflitto, una volta rinvigorito da questa scia di scontri, si plachi presto, quando l’impressione è che sia ricominciata una corsa alle armi, i morti sono diventati quotidiani, mentre media e giornalisti continuano ad essere messi a tacere.