Scuola, Italia vs Gran Bretagna
Quali differenze ci sono tra il sistema scolastico italiano e quello britannico? Ne abbiamo parlato in Scozia con Mike Kerr, insegnante di francese e di italiano al liceo generale statale St. Augustine di Edimburgo
di Gaia Cacace
Professor Kerr, ci può raccontare come funziona la scuola anglosassone e quali differenze con il sistema italiano sono secondo lei più rilevanti?
Direi che non esiste un “sistema anglosassone”, in quanto il sistema in Inghilterra è poi diverso dal sistema in Scozia. In Scozia è un biciclo, mentre in Italia i cicli sono tre. Si inizia prima, dai 5 anni, e forse non è una buona idea, perché l’inglese non è una lingua fonetica. Dagli 11 anni si passa alla seconda scuola secondaria (il liceo generale) e nel sistema statale ognuno va nella scuola più vicina. In Scozia gli esami si danno il penultimo anno, perché si vuole esaminare i ragazzi in un gruppo di materie più ampio, mentre in Inghilterra l’esame più importante vi è all’ultimo anno, per accedere all’università, sempre a numero chiuso, e solo sulle tre materie più importanti che i ragazzi hanno scelto di portare avanti.
Il fatto che la storia e la geografia non siano materie obbligatorie, e che quindi spesso non vengano studiate, può, secondo lei, essere un problema per la formazione di una cosciente appartenenza democratica e sociale nell’individuo?
Penso di sì. Vorrei sottolineare anche un’altra differenza, che è di approccio allo studio. In Italia c’è come un ricordo del vecchio sistema napoleonico, con un centro che decide quali cose bisogna studiare e cosa bisogna sapere e che è portato, per vicissitudini storiche, a dare molta importanza allo studio della storia, in tutte le sue fasi. I nostri ragazzi non sanno neanche dell’Illuminismo scozzese di Edimburgo: questo accade perché c’è un approccio che è piuttosto basato sul metodo storico di guardare delle fonti, di cercarle e di capire se sono attendibili. Si studia come fare storia e i dettagli di un certo periodo, isolato, però. Sicché hanno un approccio storico per esaminare i documenti però hanno meno conoscenza di tutti i periodi. Non conoscendo bene la storia, è anche più difficile capire poi cosa capita nel presente… Sì, si perde la narrativa storica.
Uno studio delle università di Harvard e Princeton negli Stati Uniti ha dimostrato che la maggior parte degli studenti statunitensi non sapesse dove fosse situata l’Ucraina, e che proprio coloro che sbagliavano a collocarla appoggiassero con più facilità un intervento miliare in Russia[1].
Non mi sorprende, da quel che ho sentito anch’io le conoscenze geografiche degli statunitensi sono poche per quello che è al di fuori degli USA.
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Quindi secondo lei non è il sistema anglosassone in quanto tale a dare meno rilevanza a materie come la storia e la geografia che magari invece in altre scuole sono considerate di più?
È una cosa positiva dell’approccio italiano e francese, e secondo me si dovrebbe fare di più anche qui.
Come funziona invece il lavoro di insegnante?
Una cosa che mi ha colpito è che c’è molto meno lavoro precario qui. Più posto fisso, basato a livello provinciale, della città in cui si vive, o comunque dello spazio in cui si può comodamente arrivare e tornare a casa propria. La figura dell’insegnante qui è forse meno formale.
In Italia capita che un insegnante debba lavorare in tre scuole differenti e abbia tantissimi studenti. Anche qui succede questo?
Solo per materie specializzate come la musica. Forse per l’educazione fisica a livello del primo ciclo, ma per tutte le altre materie no. Non ci sono le graduatorie e il preside, sotto consiglio del capo-dipartimento di quella disciplina, sceglie il professore, che è pagato dalla provincia. È la scuola a scegliere l’insegnante.
Il preside ha dei poteri decisionali anche in fatto di licenziare? Può decidere che un professore non vada bene per la scuola e mandarlo via?
No, non ho detto questo. C’è tutta una rete di supporto pedagogico, di interventi pedagogici o organizzativi. È molto difficile, deve essere proprio una cosa molto grave, deve essere una cosa non pedagogica, perché se c’è un problema pedagogico si risolve a livello pedagogico. Se è una cosa professionale, allora uno deve rispondere al Consiglio generale degli insegnanti che è un gruppo che dà il certificato di abilitazione, e che può essere anche ritirato, però non può essere ritirato dall’oggi al domani e dietro un pregiudizio del preside, che non ti può licenziare. Al massimo può dire che, siccome il numero di allievi cambia di anno in anno, ci sono troppi professori nel dipartimento rispetto alla richiesta all’interno della scuola, quindi uno dei professori deve andare in un’altra scuola della provincia. Altra differenza è che, anche se non siamo pagati in modo fantastico, siamo pagati molto meglio che non in Italia, dove è considerato come lavoro “secondario” per le mogli. Quelli che lavorano lo fanno come noi, seriamente. Ma non sono riconosciuti.
Con la “Buona scuola” voluta dal governo Renzi, passati i tre anni di insegnamento, il preside può decidere se licenziare o meno il professore.
Secondo me se succedesse qui sarebbe una seconda rivoluzione. No, perché possono intervenire tutta una serie di fattori personali che vengono assolutamente tolti dall’ambito dell’educazione. L’abilitazione non dipende né da un preside, né da un politico, né a livello provinciale, ma dipende da un organismo degli stessi insegnanti che supervisiona la professionalità del corpo insegnanti. Questo organismo è pagato forse un po’ dallo stato, ma anche dagli abbonamenti dei professori.
Se è una persona sola a decidere, è più possibile sbagliarsi. Così sembra un po’ un preside tipo mussoliniano, no, che dice, decido tutto io… invece penso che tutte le strutture diciamo del nord Europa hanno una rete di pesi e di contrappesi, che ci vogliono, per capire un problema da tutti i punti di vista. Può capitare di sbagliare, quando è uno solo a decidere, ma non solo, anche di creare un ambiente troppo di confronto che poi nuoce all’istruzione. Non risolverebbe il vero problema, che non è solo l’insegnante che non è capace, è inutile far cadere tutti i problemi della società sulle spalle dell’insegnante. Sembra che da un sistema evoluto in un certo modo si vuole creare un sistema (che poi non esiste) ideale anglosassone: è il pendolo che va troppo di là. E magari, in un certo senso, potrebbe andare più in là, ma bisogna parlarne, guardare le cose da tutti i lati e senza riscaldare troppo le emozioni. Rivoluzionare le cose troppo in fretta non è una buona idea.
Qual è la percezione che si ha in Gran Bretagna di questa legge, se ne parla?
No, in nessun modo. Semmai nell’ambito dell’istruzione pubblica si parla di come migliorare il proprio sistema, e si ha tendenza a guardare verso i modelli del nord Europa, in particolare quelli svedese e finlandese.
Sono diversi da quello anglosassone?
Forse hanno più libertà. È un sistema meno centralizzato e non credo che occupi il centro di un campo politico in termini di confronto tra destra e sinistra, c’è più una comune idea…
Come funziona il settore privato?
Da noi qui è più un fattore di tipo economico… l’accesso in gran parte dipende dai soldi, ma vi è anche un esame di ammissione. C’è una piccola influenza genetica. I ragazzi che frequentano una scuola privata devono anche comprare libri, quaderni… mentre nelle scuole pubbliche è tutto gratuito, anche se i testi sono pochi (vengono utilizzate soprattutto dispense ndr) e i ragazzi non possono portarli a casa, altrimenti c’è il rischio che poi non tornino più indietro il giorno dopo e siamo fregati.
Aiuta aver frequentato una scuola privata nell’accesso all’università?
Molto, sì… un forte aiuto.