Migranti o rifugiati: sono solo parole?
Al convegno “Migrazioni verso l’Europa: culture, media e diritti umani” a Bologna si è discusso sul ruolo fondamentale del linguaggio, quando si parla di immigrazione: la differenza tra le parole migranti e rifugiati non è pura forma, ma condiziona la nostra percezione
Era il 3 ottobre 2013 quando, nelle redazioni di tutti i giornali italiani, arrivava la notizia di un naufragio, il più vasto accaduto negli ultimi anni al largo di Lampedusa in quel canale di Sicilia ormai da tempo teatro di un disperato viaggio verso l’Europa.
È stato quel giorno, con i suoi 368 morti in mare, a cambiare qualcosa nei giornali che si sono trovati a “doversi” occupare di immigrazione. Il 3 ottobre di due anni fa si è, quindi, cominciato ad interrogarsi davvero su come raccontare quello che stava succedendo sulla frontiera liquida dell’Europa – come ha osservato Mauro Sarti, giornalista per Redattore Sociale e moderatore del panel “Media e migrazioni: questione di punti di vista?” all’interno del convegno Migrazioni verso l’Europa: culture, media e diritti umani, organizzato a Bologna nell’ambito del Terra di Tutti Art Festival.
Insieme a Sarti, hanno discusso il tema Raffaella Cosentino, giornalista freelance e documentarista, Barry Malone, che per Al Jazeera ha scritto il famoso editoriale “Perché AJ non userà la parola migrante”, e Daniel Adamson, freelance collaboratore della BBC. Il tema è dei più interessanti di fronte all’attualità che ci presenta, ormai su base giornaliera, storie, immagini, controversie su quella che è stata etichettata come “crisi del Mediterraneo.”
Sono proprio le parole con cui la situazione è raccontata ad aver un forte impatto sull’opinione pubblica. “Noi ad Al Jazeera, racconta Malone, ne discutiamo molto e tutt’ora manca una linea editoriale univoca. Fino a qualche mese fa si parlava anche di crisi dei migranti nel Mediterraneo; ma esiste davvero una crisi? Guardiamo il numero di rifugiati in Turchia o Libano, sono impressionanti rispetto a quello che sta succedendo alle porte dell’Europa“.
L’idea di evitare di parlare di migranti e di usare la parola rifugiati ha aperto un ampio dibattito, Barry Malone la spiega come conseguenza della ricerca di accuratezza nel lavoro giornalistico: “Ho raccolto le statistiche sui principali paesi di provenienza dei migranti (Siria, Iraq, Afghanistan, Eritrea) e analizzato la Convenzione di Ginevra del 1951: mi è sembrato naturale scegliere rifugiato piuttosto che migrante”.
In Italia il dibattito su questo argomento è ancora arretrato nonostante gli sforzi profusi dai redattori di “Parlare Civile” – un manuale che fornisce definizioni accurate dei termini da usare per il giornalismo sociale – e la Carta di Roma, uno strumento etico atto a auto-regolamentare il linguaggio usato sui giornali quando ci si occupa di immigrati e Rom.
Come ricorda Raffaella Cosentino, “Oggi in Italia è ancora un problema non usare la parola clandestino che comporta una criminalizzazione della figura del rifugiato. Inoltre è completamente assente una prospettiva globale, corredata di dati, nella narrazione dell’immigrazione.” Eppure Daniel Adamson racconta al folto pubblico della Cappella Farnese di Palazzo D’Accursio che, a suo avviso, la società civile in Italia è pronta a mostrare apertura e compassione ai rifugiati. “È una responsabilità fondamentale dei media raccontare storie di successo e di integrazione, evidenziando come la gente sia un passo avanti alla politica.”
Invece i media, soprattutto quelli generalisti, sembrano ancora piuttosto refrattari a fornire una copertura di questo genere di storie. Per far pubblicare una storia positiva scoperta in Sicilia, Raffaella Cosentino ha dovuto mettere al centro la figura dell’avvocatessa “buona” diventata “mamma” dei tanti minori non accompagnati del catanese. “Penso anche alla foto di Aylan Kurdi sulle prime pagine di tutti i giornali, commenta la giornalista, Solo qualche giorno prima erano girate sui social media molte immagini di alcuni bambini africani morti sulle spiagge siciliane, eppure ha fatto notizia il bimbo curdo, dalla pelle chiara, con dei vestiti “familiari”: è possibile che abbiamo bisogno di un’immagine del genere per credere che ciò che leggiamo stia succedendo davvero?”.
Non solo è importante scegliere le parole con cura per rendere giustizia alle centinaia di migliaia di richiedenti asilo che scappano da guerre e conflitti, ma anche per rafforzare una narrativa indipendente dal potere politico. Di nuovo il giornalismo deve dimostrarsi responsabile e consapevole della sua influenza sul linguaggio quotidiano. E forse, come suggerisce Barry Malone, non dovremmo nemmeno discutere sulle differenze tra chiamarli migranti, immigrati, richiedenti asilo o rifugiati, forse è ora di impegnarsi per restituire loro parte della dignità perduta chiamandoli, semplicemente, persone.