L’addio di Marino
Nonostante il ritiro delle dimissioni, il mandato di Ignazio Marino come sindaco di Roma si conclude sotto i colpi di ventisei consiglieri dimissionari
Testardaggine, tenacia, rispetto dei luoghi della democrazia o semplicemente “pe’ tigna”, come si direbbe a Roma. Con questo spirito Ignazio Marino aveva deciso di ritirare le sue dimissioni il 29 ottobre, auspicando che, se il suo mandato fosse dovuto capitolare e andare incontro a una morte ineluttabile, quantomeno ciò sarebbe dovuto accadere in Assemblea capitolina, unico luogo deputato ad accogliere la sfiducia nei confronti di un sindaco.
Ma in quel teatrino che è ormai diventata la scena politica romana, le battute degli attori vengono continuamente cambiate, come fossero frutto dell’estro di un regista perverso che trasforma una fiaba in una commedia tragicomica. Così, non c’è stato dibattito, spiegazione, confronto: ventisei firme depositate da un notaio suonano il canto del cigno per l’amministrazione Marino.
L’ormai ex sindaco di Roma, il 25 ottobre aveva incontrato i suoi sostenitori in Piazza del Campidoglio. Citando in maniera decontestualizzata Che Guevara – si sa, la capacità comunicativa non è mai stata il suo forte – Marino era venuto incontro ad un migliaio di persone che gli chiedevano di ritornare sui suoi passi e ritirare le dimissioni. “Questa piazza mi dà il coraggio di andare avanti – aveva tuonato –. Voi mi chiedete di ripensarci. Io ci penso e non vi deluderò“. Puntuale, l’arrivo il 29 ottobre della sua lettera nella quale annunciava il ritiro delle sue dimissioni.
Ammettendo di aver compiuto degli errori e di essere stato poco comunicativo sulle scelte prese dalla sua amministrazione nei confronti dei cittadini romani, Ignazio Marino ha scritto: “Mi spiace, perché non è questo il segno che volevo dare, a partire da un dialogo più aperto e costruttivo che avrei voluto avere con l’Assemblea capitolina, a partire dal gruppo del PD, il partito di cui sono espressione e che ha saputo più volte, insieme a tutta la maggioranza, dare prova di coraggio e determinazione con voti che resteranno storici per la nostra Capitale. Per tutto questo, ritengo non sia giusto eludere il dibattito pubblico, con un confronto chiaro per spiegare alla Città cosa sta accadendo e come vorremo andare avanti. Questi sono i principali punti di confronto sui quali verificare l’esistenza di una visione comune con i partiti che sostengono in Consiglio comunale l’organo di governo del Campidoglio”.
Ma tutto questo è arrivato troppo tardi, quando ormai il destino del sindaco era stato già deciso nelle segreterie di Partito. Spesso i romani vengono dipinti come “capoccioni” o insistenti, insomma, “de coccio” per indicare il loro voler rimanere sulle proprie convinzioni anche quando il contesto che li circonda indica il contrario. Ecco, credere di poter tornare a governare Roma ritirando le proprie dimissioni è stata una mera illusione e Marino, in questo caso, si è dimostrato molto più romano che genovese.
La discussione in Assemblea capitolina non c’è stata perché, semplicemente, la sorte di questa amministrazione era stata decisa altrove. Sono stati ventisei i consiglieri che hanno rassegnato le loro dimissioni davanti al notaio: diciannove del PD, due della maggioranza (Centro democratico e Lista Civica Marino) e 5 dell’opposizione. Movimento Cinque Stelle e Sel non hanno firmato le dimissioni.
Congiura o meno, non c’è dubbio che il dibattito politico e la democrazia abbiano subito una sconfitta in questi caldi giorni romani. Dalle parole espresse nella lettera, l’intento di Marino non sembrava quello di volersi tenere stretta una poltrona bollente quanto quello di riportare la questione nei luoghi più adatti. Tuttavia, si sa, in una commedia tragicomica a vincere è l’assurdo.
E così, in men che non si dica, è stato nominato Commissario di Roma Capitale Paolo Tronca, prefetto di Milano che ha saputo guidare la città lombarda, definita nei giorni scorsi addirittura la “capitale morale” d’Italia, nella realizzazione di Expo 2015. L’obiettivo è quello di garantire, in primo luogo, una buona riuscita del Giubileo che partirà l’8 dicembre e che per quasi un anno permeerà la vita quotidiana dei cittadini romani, cattolici o meno.
Una bella sfida per cominciare, non c’è dubbio. Peccato che Roma non sia un evento spot o una grande manifestazione. Roma è un intrigo di vite, poteri e interessi e non sarà sufficiente assicurare la trasparenza e la realizzazione di un evento per ricucire un tessuto culturale e politico andato inesorabilmente in pezzi.