Lea Garofalo, “La Bastarda” che ha spaventato la ‘ndrangheta
Al Teatro Centrale Preneste di Roma è andato in scena lo spettacolo “La Bastarda, una vita coraggiosa” sulla vita di Lea Garofalo, che ha pagato con la vita l’aver denunciato le attività illegali della sua famiglia. Una donna abbandonata dalle Istituzioni e la cui morte è stata utile a far capire in che modo opera la ‘ndrangheta
Portare in scena l’organizzazione mafiosa più potente al mondo, la ‘ndrangheta, e raccontare uno dei momenti più difficili per questa associazione criminale non è cosa facile. Questo compito è stato svolto in maniera egregia dalla Compagnia Ragli, con la collaborazione dell’associazione Da Sud e dagli attori Dalila Cozzolino, Andrea Cappadona, Francesco Figliomeni e Rosario Mastrota.
Lo scorso 30 ottobre al Teatro Centrale Preneste di Roma è andato in scena lo spettacolo “La bastarda, una vita coraggiosa”, un omaggio alla memoria di Lea Garofalo, donna definita dalla malavita calabrese appunto “La bastarda”. Il termine dispregiativo è stato ben studiato dagli ndranghetisti ma Lea è riuscita a trasformarlo positivamente in quanto: il Bastardo è un ibrido tra due razze ma la coraggiosa donna ha ben presto capito che da esse(la sua famiglia e quella del compagno) lei dove staccarsi.
La scenografia di questo spettacolo è scarna. I 4 attori si muovono in uno spazio i cui confini sono 3 costruzioni che appaiono apparentemente delle lavatrici; una sedia ed una giostra girevole.
La vita della Garofalo scorre durante lo spettacolo. La ‘ndrangheta viene spiegata con una facilità quasi disarmante. Viene paragonata addirittura ad una partita di calcetto, dove ogni parte in causa ha il suo ruolo e dove l’unica cosa certa è la vittoria. Dove la morte, è vista come un vanto per chi sopravvive, e come un’onta, da vendicare, per i sopravvissuti della squadra sconfitta.
“Vivo per finta, per aver detto la verità!“: queste sono parole forti dette da una donna che invece di essere protetta dallo Stato in cui vive, per il gesto che ha compiuto è costretta a scappare. E scappa la Garofalo, perché l’Italia la crede una Collaboratrice di Giustizia (ex mafiosa che si pente) e non una Testimone di Giustizia (colui che non avendo commesso alcun reato decide di collaborare con lo Stato fornendo informazioni utili alle indagini).
Ma lei si identifica appieno con la seconda categoria. Per amore della sua bambina una volta giunta a conoscenza del “lavoro” del marito scappa da lui, divenendo da quel momento un’apolide. Una donna la cui unica certezza era il bene verso la sua Denise. Ed è per questo che non si è mai fermata, che è andata avanti. Ed è per lei, per la figlia, che ha perso la vita. Per farle capire come questa organizzazione criminale, che spadroneggia lì dove c’è omertà e silenzio, fugga via spaventata dinnanzi al rumore, come un vampiro che mal sopporta la luce del giorno.
“Sono dovuta morire per rendere vere le mie parole“: questa battuta, detta alla fine dello spettacolo, non rende giustizia a Lea Garofalo ma ci fa purtroppo capire come in Italia si sistemino le cose solo quando ormai è troppo tardi.