Il punto di Aden
Yemen: nove mesi di guerra, una presidenza vacante, un’incapacità internazionale di trovare una mediazione. L’Arabia Saudita assolda mercenari anche in Sudamerica. Il bilancio è di 6.000 vittime, un quarto dei quali bambini
La strada è devastata. Niente è più come prima, eccetto qualche palma che ha resistito al crollo generale. Non c’è gente. La città vive in un vuoto pneumatico.
La polvere ricopre tutto, dando quell’impressione di trasandatezza, di abbandono. Il paesaggio, tipicamente rosseggiante, ora è sbiadito dalla cortina stantia che mai aveva caratterizzato i palazzi rossi dai ricami di merletto tipici delle città yemenite. I missili arrivano dal mare. Chi è scappato nell’entroterra non aveva calcolato l’inedia della comunità internazionale e il dispiegamento degli aerei da combattimento. “It’s totally underground”. Una frase ricorrente nella testimonianza di chi scappa, da questa o da un’altra guerra.
Perché di guerra si tratta. I bilanci sono in continuo aggiornamento, eppure di operatori sul campo se ne contano pochissimi. Quali sono i dati certi? L’ONG britannica Action on Armed Violence (AOAV), che pubblica un report mensile sulle vittime di violenza nel mondo, sostiene che lo Yemen è stato il Paese con il maggior numero di attacchi contro i civili tra gennaio e luglio del 2015, ancora più che la Siria.
Nel nome di chi? Il dio Interesse. I rappresentanti dei governi che hanno legittimato l’avvio del conflitto si riempiono la bocca delle frasi del terrore. Usano termini come “minaccia terrorista”, “guerra civile”, “propaganda antigovernativa”. E si fanno forza della pusillanimità dell’uomo indicato dagli attori stranieri come il giusto successore di Saleh. Incapacità e paure vengono travisate per legittimare un intervento armato di grandissime proporzioni. Un’alleanza militare araba “multifunzionale”, quella tra Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Bahrein – ma anche Stati Uniti ed Israele – che puzza di utilitarismo.
A farne le spese, sempre e solo i civili. Numeri da record che però non colpiscono l’immaginario del grande pubblico e non rendono la notizia “notiziabile” perché il ritrovato afflato caritatevole per il datato conflitto siriano ha portato cifre più consistenti ed effetti più palesi sotto gli occhi di tutti, anche nella “Fortezza Europa”. Eppure il conflitto yemenita dovrebbe essere all’ordine del giorno perché le ragioni della guerra e della conseguente emergenza umanitaria risiedono nella spartizione del golfo, nei traffici commerciali, non certo nella pretesa religiosa. Lo scontro sunniti-sciiti in Yemen è datato, ed è stato spolverato a pretesto. Il supporto iraniano, tanto decantato, risulta assolutamente inadeguato per risultati di questa portata.
“El-arco” e il fattore manovalanza. Nelle università di Bogotà viene chiamato “El Arco” l’area dal profumo d’Oriente che si estende dal subcontinente indiano, attraversa il Medio Oriente e raggiunge il Corno d’Africa (Somalia, Kenya, Etiopia, Gibuti, Eritrea e Sudan costa). Una zona “aurea”, nel senso figurato del termine, che conterrebbe l’80 per cento del petrolio del pianeta.
Ecco la delizia e la zavorra dello Yemen: la posizione geografica. Il controllo dello stretto Bab-el-Mandeb, letteralmente “La Porta delle Lamentazioni”, che collega il Golfo di Aden a nord con il Mar Rosso e a sud con l’Oceano Indiano . Questa sponda asiatica dello Stretto appartiene allo Yemen e ai due paesi africani più infiltrati dai movimenti dell’islam radicale: l’Eritrea e Gibuti. Per questo stretto passaggio, ogni giorno, comprese le feste comandate, transitano 3,8 milioni di barili di petrolio. Non stupisce l’interesse americano per l’anonima isola di Socotra: la geopolitica è una strategia che si fonda su piccoli snodi ben saldi.
I fatti. Alla fine del 2014 il presidente yemenita Abdu Rabu Mansour Hadi è fuggito a Riad, mentre i miliziani sciiti conquistavano l’aeroporto di Aden, città dove le istituzioni di transizione, riconosciute dalle Nazioni Unite, si erano trasferite dopo il golpe a Sana’a degli Huthi, i ribelli del movimento sciita (Ansarullah) appoggiato strumentalmente dall’ex presidente Ali Abdullah Saleh.
Una coalizione di dieci Paesi arabi, guidata dall’Arabia Saudita e sostenuta dagli Stati Uniti (che forniscono appoggio logistico e di intelligence), ha avviato una campagna aerea (richiesta da Hadi) a difesa delle istituzioni riconosciute e contro obiettivi militari dei ribelli sciiti.
Un paio di attacchi terroristici alle moschee della capitale e l’occupazione sciita di Taiz, la terza città del Paese, a prevalenza sunnita, hanno fatto precipitare velocemente la condizioni di vita nel paese: si sono legittimati i raid aerei della coalizione militare.
Partecipano all’intervento aereo cinque monarchie del Golfo: capofila è l’Arabia Saudita, seguita a stretto giro da Qatar, Emirati, Kuwait e Bahrein. L’unica nazione a rimanerne fuori è l’Oman. Ad appoggiare l’intervento anche altri Paesi mediorientali, più Egitto, Giordania, Marocco, Sudan. In pochi giorni vennero schierate quattro navi da guerra dell’Egitto, perché da mesi Riyad e Il Cairo discutevano della necessità di proteggere la stabilità dello stretto del Babel-Mandeb che condiziona gran parte dei flussi economici e petroliferi regionali.
Ma intervenire a Sana’a implica far salire il livello di scontro indiretto con l’Iran. Proprio nei mesi in cui si stava concludendo l’accordo sul nucleare che ha riaperto le porte della Repubblica Islamica al mondo.
Il problema: l’infiltrazione jihadista. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione 2216 con cui si chiedeva il dialogo e si imponevano sanzioni sulle armi destinate al movimento sciita degli Houti. Nel frattempo però al-Qaeda ha iniziato a sopperire alla carenza di acqua, di cibo, di medicine e molte bandiere nere del califfato islamico hanno fatto la loro comparsa sulle facciate delle case. Controllando le coste orientali del paese, l’organizzazione è in grado di far arrivare e far partire uomini, armi e mezzi. Per il Dipartimento di Stato americano il gruppo ha un migliaio di operativi stabili nel territorio yemenita, che varia e sostituisce con foreign fighters.
Per contrastare questo nucleo inafferrabile l’Arabia Saudita ha assoldato 800 mercenari colombiani. La promessa è una paga di 4mila dollari al mese. Ma c’è di più. Le monarchie del golfo hanno messo sul tavolo della trattativa anche il diritto di cittadinanza per mogli e figli, nonché la possibilità di studiare nelle università del governo saudita. Perché questa scelta? L’intelligence sostiene che la capacità di infiltrazione dei sudamericani è “maggiore”, ma la scelta appare discutibile e le reali motivazioni restano nebulose. Un motivo in più per guardare allo Yemen con curiosità, se non con partecipazione per la sua popolazione. Bisogna supportare e dare seguito alla denuncia del gruppo di ONG e associazioni per i diritti umani, tra cui Oxfam, Consiglio Norvegese per i Rifugiati, Save the Children, Action Contre La Faim e altre sette organizzazioni umanitarie, che hanno inviato una lettera al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per chiedere il cessate il fuoco e l’avvio di un processo di pace nello Yemen.
Non si può dimenticare che le Nazioni Unite hanno classificato la guerra in Yemen come crisi umanitaria di terzo livello, al pari di quella siriana, con oltre due milioni di profughi in fuga dal Paese.