Parigi, l’odio
L’orrore nella capitale francese, l’immigrazione, l’ISIS, le responsabilità internazionali
Parigi, 13 novembre 2015: appena 10 mesi dopo la strage al giornale satirico Charlie Hebdo la capitale francese sprofonda nuovamente nel panico, travolta da ben sette attentati terroristici compiuti tra le 21 e le 22 di venerdì scorso – tre di essi presso alcuni ristoranti della capitale, tre allo Stade De France e uno al teatro Bataclan, il più sanguinario. Almeno 129 le vittime, 80 delle quali solo al Bataclan; circa 200 i feriti.
Rendere conto delle reali motivazioni soggiacenti a questi attentati, è esercizio alquanto complesso. Intendiamoci, non v’è alcun dubbio circa la matrice jihadista – gli autori delle stragi gridavano ‘Allah Akbar!’ nel momento in cui hanno aperto il fuoco contro le vittime; l’ISIS non ha esitato a rivendicare la paternità dell’attacco, come spesso in questi casi.
Tuttavia, ritengo sia altrettanto indubbio non si possa fare a meno di porsi alcune domande – pur semplici che siano. Perché proprio in Francia? Perché sono stati scelti come obiettivi uno stadio, una sala concerti e tre ristoranti? Ma soprattutto: perché hanno dovuto farne le spese 129 persone civili, cui unica colpa rimane il fatto di essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato?
Com’è noto, non è la prima volta che la Francia è vittima di simili attentati – non solo a Parigi, peraltro: oltre alla strage al Charlie Hebdo mi sento di ricordare la sparatoria alla scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012. Ciononostante, a mio avviso la scelta degli obiettivi designati quale teatro di questi massacri desta più di qualche perplessità – elemento che rende ancor più preoccupante il già spaventoso bilancio delle vittime che, ricordarlo non è mai di troppo, sono essenzialmente civili.
Ok, il Bataclan era nel mirino da tempo per il solo fatto di aver ospitato conferenze a supporto della comunità ebraica e quella sera vi si esibiva una band statunitense (gli Eagles of Death Metal), espressione dell’egemonia culturale occidentale; allo Stade de France la nazionale francese giocava un’amichevole contro la Germania e sugli spalti era presente il Presidente François Hollande; nel mese di settembre la Francia ha scelto di entrare in guerra in Siria, per fronteggiare la minaccia dello Stato Islamico.
Eppure le presunte motivazioni di cui sopra non mi sembrano ancora elementi sufficienti per poter giustificare una simile ondata di violenza contro una popolazione civile – che mi viene resa ancor più incomprensibile dalle inspiegabili sparatorie in quei bar e ristoranti non lontani dal Bataclan.
In questo atroce contesto, l’unica definizione che mi sembra possibile è quella di mero attentato contro la dignità umana – formula peraltro utilizzata un tempo da Barack Obama e dalla Santa Sede. Ha rincarato la dose il Papa, nell’Angelus di ieri: “Voglio riaffermare con vigore che la strada della violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità. E che utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada è una bestemmia“.
Proprio in questi termini, risiede il nocciolo della questione: benché indubbio che l’impronta degli attentati del 13 novembre sia di matrice islamica, qui si tratta di analizzare questioni che travalicano di gran lunga la professione di una confessione religiosa – qualunque essa sia, come probabilmente intendeva alludere Bergoglio.
Non è un caso, infatti, che proprio Parigi sia stata ripetutamente vittima di simili attentati: la cultura jihadista dell’ISIS attecchisce agilmente nelle banlieu francesi, dove l’odio razziale è sentimento essenzialmente corrisposto da entrambe le parti; in maniera speculare cresce la popolarità della destra populista del Front National – il cui verbo squisitamente intransigente paga in termini elettorali, un po’ meno in termini di sicurezza interna.
Ben consapevole dell’eloquente difficoltà in cui si possa incorrere nel proferir parola laddove la dignità umana viene oltraggiata a simili livelli – laddove ogni parola appare superflua, specie se espressa in termini simili a quelli utilizzati dal quotidiano Libero – ritengo tuttavia non ci si debba tirare indietro, poiché consapevole dell’enorme portata etica di cui l’informazione può e deve farsi carico.
I drammatici fatti del 13 novembre meritano una profonda riflessione – meglio se condotta a più livelli. Ovviamente, qui non si tratta solamente di rilevare le falle dei sistemi di sicurezza che hanno favorito gli attentati di Parigi; così come non ci si deve limitare ad analizzare i contorni di quell’odio razziale di cui ampiamente abbiamo parlato.
Piuttosto, le risposte andrebbero cercate nei ripetuti fallimenti delle politiche internazionali. Ormai non dovrebbe essere un mistero che l’ISIS sia nato in quanto risposta alla pressoché ingiustificata ingerenza della Nato in Iraq, alla sua inadeguatezza nel favorirne la transizione democratica e, non ultima, alla sostanziale debolezza dell’ONU nel fronteggiare il conflitto siriano – nel lungo periodo in cui ha dimostrato la sua inezia, oltretutto, è cresciuta spaventosamente la presenza mediatica di quel ‘Verbo’ che diffonde le idee sanguinarie del Califfato.
In maniera simile, non si può non constatare il fallimento dell’operazione Triton e l’inadeguatezza dell’Unione Europea nel far fronte agli sbarchi dei migranti sulle sponde del Mediterraneo e, soprattutto, nel favorirne identificazione, accoglienza e ricollocazione. A tal proposito: uno degli autori delle stragi di Parigi era in possesso di un passaporto siriano rilasciato a un migrante pervenuto in Europa attraverso le sponde greche; non è ancora chiaro se tale passaporto appartenesse realmente al terrorista che si è fatto esplodere allo Stade De France o se questi se ne fosse appropriato indebitamente, fatto sta che la notizia ha destato una preoccupazione tale che alcuni governi europei hanno colto l’occasione per riproporre le proprie perplessità sul Piano UE circa la ricollocazione dei migranti – su tutti, il neo-eletto governo polacco.
Un film francese di vent’anni fa illustrava efficacemente la difficile condizione in cui vivono i ragazzi delle banlieu francesi – il titolo, nenche a dirlo, “L’odio“. Il monologo finale, recitava più o meno così: “È la storia di una società che precipita e che mentre sta precipitando si ripete, per farsi coraggio: fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Ma il problema non è la caduta ma l’atterraggio”. Ebbene, dopo gli attentati verificatisi a Parigi in questo drammatico 13 novembre 2015, sarebbe utile chiedersi se stiamo continuando a ripeterci che “fino a qui va tutto bene“, o se finalmente ci siamo resi conto di essere in prossimità dell’atterraggio – mi riferisco alle inezie dell’ONU in Siria, al fallimento di Triton e, soprattutto, ad ogni forma di retorica capace di suscitare sentimenti di profondo odio razziale, non soltanto in Francia.
Come ha osservato il Papa, invocare il nome di Dio per giustificare la strada della violenza è una bestemmia. E forse pregarlo è altrettanto inutile, almeno in questi casi.