Raccontare l’immigrazione senza paura né pietà
Non solo giornalisti: per costruire una narrazione umana dell’immigrazione c’è bisogno del contributo di tutti, compresi gli operatori dell’accoglienza che possono far tesoro della loro esperienza quotidiana e dare voce a chi spesso non può farsi sentire
Confini, frontiere, barriere. E ancora, povertà, disperazione, tragedia. Naufragio, invasione, emergenza. Immigrazione, asilo. Abbiamo già parlato di quanto le parole siano fondamentali quando le storie che stiamo raccontando e leggendo hanno come protagonisti degli esseri umani. Abbiamo già riflettuto sulla necessità di interrompere questo processo galoppante che porta alla “disumanizzazione” del migrante, considerato come categoria e non come singolo. Quello che, forse, ancora sfugge è come, talvolta, siamo noi stessi a creare questa distanza. Proprio questo è il tema principale del primo dei “Dialoghi Fuori Porta – Migrazioni” organizzato dal Festival Porte Aperte a Bologna.
Insieme ai docenti Pierluigi Musarò e Paola Parmiggiani, Elisabetta degli Esposti Merli di Lai-Momo e Giovanni Stinco di Radio Città del Capo, si è discusso di accoglienza e paura alla prova dei media. E se, come sosteneva il sociologo Georg Simmel, “il confine è un fatto sociale“, è un dato di fatto che oggi sono giornali, radio, televisioni a contribuire alla creazioni di confini e frontiere. Come osserva Musarò, “i media hanno un ruolo anche nella creazione del nesso tra sbarchi e terrorismo. È un processo sottile che passa attraverso immagini, notizie, sondaggi.” Parimenti, i media mainstream ricoprono un ruolo fondamentale nel definire il frame in cui una qualsiasi notizia legata all’immigrazione viene collocata. Ecco, dunque, perché fin troppo spesso si oscilla tra una cornice di sicurezza e quella della pietas compassionevole.
Uscire da questo dualismo si dimostra, ogni giorno, più complicato del previsto anche per chi lavora nel settore dell’accoglienza. L’obiettivo dichiarato è sensibilizzare e coinvolgere l’opinione pubblica vittima di pregiudizi, ma, come fa notare Paola Parmiggiani, “nei nostri studi abbiamo rilevato come nelle campagne di comunicazione sociale emergano due rischi primari: da un lato, la produzione di nuovi stereotipi opposti a quelli che si vogliono combattere, dall’altro l’associazione pericolosa tra integrazione e assimilazione”. Sono chiamati, dunque, a prendere parte alla creazione di una narrazione più efficace dell’immigrazione gli operatori stessi che possono, grazie alla loro esperienza giornaliera, valorizzare il riconoscimento della differenza come terza via tra compassione e paura.
Si tratta di un mutamento di paradigma cognitivo non semplice da realizzare perché implica il dialogo e il confronto con i migranti stessi nello sviluppo di campagne ed eventi di sensibilizzazione.
L’auto-rappresentazione sembra essere la chiave imprescindibile per dare voce a migranti, richiedenti asilo e rifugiati, trasformandoli da oggetto della comunicazione e del pensiero a soggetto attivo e parlante. Un esempio virtuoso a tal proposito è quello presentato e curato da Elisabetta degli Esposti Merli che con l’associazione Lai-Momo ha curato la campagna “Bologna Cares!“. Attiva dal 2014, rappresenta una best practice poiché pone al centro di tutta la sua attività l’umanità e il buon senso. “Ci è sembrato che questi valori fossero ideali, spiega la degli Esposti Merli, per poter raggiungere un pubblico più vasto possibile, umarells e zdaure compresi.” Raccontando i migranti partendo dalle ragioni che li hanno spinti a lasciare i loro paesi d’origine e le loro potenzialità, Bologna Cares! pone l’essere umano in quanto tale al centro del suo racconto.
È una scelta di campo che, come auspicato da Stinco, può facilitare anche i media tradizionali a neutralizzare affermazioni propagandistiche e bufale. Inoltre collocare il tema “immigrazione” nella realtà urbana può svolgere un ruolo significativo nello stemperare il clima emergenziale con cui troppo spesso viene affrontato l’argomento.
Infine è lecito aspettarsi che dare voce a uomini, donne, bambini per raccontare il loro migrare possa abbattere il muro della compassione distante, per produrre l’indignazione di fronte ad una situazione ingiusta, vissuta da persone che hanno la dignità di voler e poter uscire da questa situazione. Non sarà la nostra pietà ad aiutarli, né la nostra paura ad allontanarli, sarà, forse, la nostra capacità di ascoltare a salvarci.
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