“War, Capitalism & Liberty”, l’omaggio romano a Banksy
Fino al 4 settembre la Fondazione Terzo Pilastro mette in mostra a Palazzo Cipolla più di cento stampe dei più grandi capolavori del writer inglese Banksy. Un’esposizione molto ricca, ma non totalmente riuscita, a dimostrare che canonizzare la ribellione è sempre un salto molto arduo
di Gloria Frezza
su Twitter @lavanagloria
Nascondere la propria identità, in un’epoca nella quale persino i segreti più impensabili sembrano a portata di mano, ritorna ad essere un elemento che fa la differenza nella fama riservata agli artisti. Il mistero, puro e semplice, rimpolpa anche i messaggi più banali e rende ancor più condivisibili quelli profondi. A partire dal volto celato della cantante Sia, fino all’oscura ed ormai internazionale penna di Elena Ferrante, il trucco c’è ma non si vede, e l’importante è questo.
Sulla scia di questo arcano necessario, troviamo le bombolette del writer Banksy. Artista inglese che quasi non abbisogna di ulteriori presentazioni, Banksy distribuisce la sua innovativa street art nelle più svariate città del mondo da più di un decennio. Nato a Bristol (quasi l’unico dettaglio di lui che si conosca) nel Sud-Ovest dell’Inghilterra, lavora per lungo tempo a Londra e si fa notare per le sue scelte stilistiche legate alla “guerrilla-art” e alla protesta tutt’altro che silenziosa nei confronti delle questioni più calde degli ultimi anni. Acquista internazionalità, pur mantenendo gelosamente l’anonimato, con la sua There is always hope (meglio conosciuta come Ballon girl), originariamente trovata nella capitale britannica e poi distribuita in varie città con l’utilizzo dello stencil, e si conferma nell’Olimpo degli “influencer” del nuovo millennio con il suo Flower Thrower, apparso a Gerusalemme nel 2003.
Da allora, molta strada è stata fatta, le opere di Banksy hanno attraversato il globo più volte trasmettendo, con la sola potenza visiva, morali nascoste dietro discorsi molto più lunghi e già molte volte tentati, senza successo. Qual è il segreto della sua potenza? Un linguaggio semplice come il disegno, l’ironia amara delle didascalie e, chiaramente, la drammaticità dei musei che lo espongono: i solidi muri popolari delle città più variegate.
Rimanendo su questi tre elementi per sottolineare la forza e la bellezza dolorosa di Banksy, è difficile pensare alle sue opere “rinchiuse”, per così dire, tra le pareti bianche di un museo vero e proprio. Eppure, questo è il tentativo fatto dalla mostra tutta italiana “War Capitalism & Liberty”, a Palazzo Cipolla fino al 4 settembre 2016, curata e realizzata da Fondazione Terzo Pilastro. Essendo i graffiti di Banksy non facilmente trasportabili, l’esposizione consta di alcuni pezzi originali (quali cartelli o pezzi d’arredamento) e di più di cento stampe delle opere principali, provenienti da collezioni private.
La mostra è divisa in tre sezioni, che sono anche suggerite dal titolo, e raccoglie la collezione dedicata ai poliziotti (“Cops”), quella sui topi (“Rats”), cominciata sulle strade di Londra dove questi animali erano combattuti ed odiati (“none loves rats”), ma non mancano opere magne quali Napalm, Umbrella Girl o Exit through the gift shop, appartenente al periodo in cui l’artista usava infiltrare nei musei più famosi alcune sue opere anticate, rivisitate da piccoli dettagli moderni quali maschere antigas e sigarette.
Apparentemente, un successo assicurato. Così infatti canta il botteghino, non è difficile trovare piccole code in via del Corso, in qualsiasi giorno della settimana, composte di avventori pronti ad essere stupiti e a condividere la semplicità caustica di Banksy. Eppure, questo avviene? La risposta è “no” per due motivi: il primo è il museo stesso, che diventa una gabbia che depaupera impietosamente le opere della loro forza emotiva, molte stampe si ripetono creando un effetto pop-art banale che sfoca il messaggio contenuto nel disegno, inoltre appendere dei graffiti alle pareti sembra essere proprio quel che Banksy combatterebbe fino allo stremo delle forze; il secondo è il divieto di fare fotografie, totalmente insensato essendo le opere originali tra le più fotografate del panorama artistico, questo piccolo impedimento annulla l’elemento interattivo tra l’artista e il fruitore, che Banksy coltiva supremamente, e causa un visibile spaesamento di fronte alle esposizioni.
Forse una struttura diversa o un percorso meno tematico e più emotivo avrebbero creato un migliore ambiente in cui godere delle verità tristi dell’anonimo writer. Forzarlo in un meccanismo troppo convenzionale non fa che confermare il messaggio che lui stesso ripropone nei suoi lavori: “Se quel che faccio portasse qualche miglioramento, l’avremmo già visto”. Senza dubbio l’intento era tutt’altro che questo, ma non si può fare a meno di notare il messaggio che usava gridare dai muri, spegnersi lento negli sguardi inebetiti di chi tenta di fare una foto senza farsi notare dal personale.
Non tutto è perduto tuttavia: infatti in una sezione tra le più interessanti, sono esposte tutte le copertine di dischi realizzate da Banksy in questi anni (Blur, Green Day, Paris Hilton) assieme ad un accurato prospetto che ripropone il percorso mentale da lui compiuto nell’interessarsi ai più diversi cantanti e gruppi. Inoltre, poco prima dell’uscita dall’esposizione (che passa rigorosamente attraverso il gift-shop), troverete un’enorme lavagna munita di gessetti, sulla quale si legge “if you were Banksy..” e dove si può lasciare il proprio segno d’autore, iniziativa che di certo interpreta i desideri dell’artista. In sostanza, una mostra sfocata che non manca di elementi d’interesse e che di certo, varrà un giudizio fatto personalmente.
Quel che sembra venire fuori dal tentativo romano di onorare il più famoso mister X della bomboletta, è una vaga sensazione di disagio per aver visto un messaggio provare ad essere contenuto e canonizzato, ma anche una strana euforia complice, per la certezza che invece, qualcosa è andato storto. Si può dunque citare a cuor leggero il signore che mi stava davanti all’uscita, che cercava, confuso, di dire alla propria consorte: “Ti assicuro, credimi, Banksy è molto meglio di così”.