Diritto all’oblio, dalla Cassazione un punto a favore della privacy
Con la sentenza dello scorso 24 giugno la Corte di Cassazione si pronuncia a favore della privacy. Il trattamento dei dati è illegittimo se vi è accesso diretto e agevole
di Martina Zaralli
su Twitter @MartinaZaralli
Su Ghigliottina.it abbiamo affrontato più volte il tema del diritto all’oblio (qui i precedenti articoli), una prerogativa conosciuta soprattutto nella sua forma online e che attrae l’attenzione di studiosi e non. Dalla sentenza UE Google Spain del 2014, la prima a gettare clamore mediatico sulla questione, the right to be forgotten si afferma come un argomento di estrema attualità, uno spunto di riflessione sul necessario equilibrio tra privacy e cronaca, diritti che la realtà 2.0 tende agli estremi del mondo digitale.
Un ulteriore step arriva con l’ultima pronuncia dalla Corte di Cassazione, la sentenza n. 131161 del 24 giugno scorso.
Chiamata a pronunciarsi su quanto statuito dal Tribunale di Chieti, che condannava il direttore e l’editore di una rivista online al risarcimento per violazione del diritto all’oblio, vista la permanenza di un articolo su una vicenda di natura penale riguardante un fatto passato, ma ancora non concluso, e che vedeva come protagonisti due gestori di un locale, la Suprema Corte aggiunge un altro tassello al complesso mosaico del diritto ad essere dimenticati.
La Cassazione conferma la sentenza del tribunale di primo grado: l’illiceità del trattamento dei dati, e la conseguente lesione della reputazione e dell’immagine, si ha non nel contenuto, pubblicazione, diffusione o archiviazione dell’articolo online, ma nel suo accesso diretto, rimasto comunque agevole (con una semplice ricerca) nonostante la diffida alla rimozione del settembre 2010.
È ormai noto che il diritto all’oblio sia strettamente connesso al concetto di rilevanza temporale di una notizia, un fatto veramente accaduto, ma privo ormai di attualità.
Dal punto di vista normativo, sebbene per l’Italia il diritto all’oblio sia frutto di giurisprudenza e dottrina, l’articolo 11 del Codice Privacy (D. Lgs 196 / 2003), alla lettera e, sottolinea il rapporto inf – temporale: i dati sono conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati.
A livello europeo, il Regolamento n. Regolamento n. 2016/279 sulla protezione dei dati personali delinea il diritto all’oblio come l’ottenimento della cancellazione, senza giustificato ritardo, delle informazioni quando: i dati non siano più necessari rispetto alle finalità della raccolta o trattamento, l’interessato ritiri il consenso e non vi sia un altro legittimo motivo per trattenerli, trattamento illecito, la cancellazione rappresenta un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o degli Stati membri cui è soggetto il titolare del trattamento, i dati sono stati raccolti relativamente ai servizi offerti dalla società del l’informazione.
La pronuncia della Corte di Cassazione aggiunge qualcosa in più. La novità giurisprudenziale deve essere letta nella connotazione del mantenimento all’accesso come diretto. Una decisione che aggiunge però, forse pericolosamente, un ulteriore livello nel grado di non – ricordo: il “reperimento agevole” sposta l’oblio tra gli archivi online, ma soprattutto si pone in controtendenza rispetto all’orientamento europeo e nazionale che, prima della pronuncia del 24 giugno 2016, consolidava il principio secondo il quale la possibilità di diritto all’oblio per quei contenuti ormai irrilevanti o comunque accaduti in un passato lontano.
Un right to be forgotten accelerato, come viene definito da qualcuno, riconoscendone la violazione solo dopo due anni (come nel caso di specie) porta ad una forzata distinzione tra rilevanza storica del fatto e interesse della collettività alla conoscenza, divario che mal si concilia con l’informazione liquida e la sua essenza prêt-à–porter.