Hong Kong, è l’inizio di una nuova era?
Esito rivoluzionario per le legislative di inizio settembre a Hong Kong: localisti e radicali entrano nel Legco. E nell’ex colonia britannica si pensa all’indipendenza
di Sara Gullace
su Twitter @nottemare
Hong Kong indipendente, adesso, è un sogno realizzabile. Le elezioni dello scorso 4 Settembre hanno cambiato il panorama politico di questo Stato nello Stato: per la prima volta, infatti, gli esponenti del movimento secessionista, i localisti, entrano in Parlamento. E lo fanno con Yau Wai e Sixtus Leung. Accanto a loro siederanno i giovani democratici del movimento studentesco. Le due forze, nel consiglio legislativo, avranno otto seggi. Una minoranza rispetto ai 40 dei pro-establishment, che, però, si aggiunge ai 22 dei pan-democrat, anche loro con obbiettivi civili e democratici, superando la soglia dei 24 seggi che permette di intervenire sulle riforme costituzionali e mettere il veto sugli intenti pro-Pechino.
Ricordiamo che Hong Kong è una Regione Amministrativa della Cina dal 1997 e si regge su uno statuto speciale che sarà in vigore fino al 2047. Negli ultimi anni la metropoli, che ha un capo del governo filo-cinese, Leung Chun-ying, ha visto crescere l’assoggettamento al regime comunista cinese. L’unica voce dei diritti degli hongokangesi, fino alle ultime elezioni, erano alcuni deputati filogovernativi che cercavano di mantenere l’autonomia al voto senza, comunque, scontentare i poteri forti e agendo all’interno della costituzione e del regime. Una causa perorata senza troppo mordente, insomma.
Qualcosa, però, sta cambiando. Se ne rende conto, forse per primo, lo stesso Leung Chun-ying, la cui rielezione nel Marzo del 2017, data l’impopolarità per l’atteggiamento pro-Pechino, è veramente in bilico. E ne è convinto Nathan Law, leader del neonato partito di centro sinistra Demosisto che, ora, siederà in parlamento: “Gli hongkonghesi – ha dichiarato ad un giornale italiano – non accettano più di essere dominati dall’autoritarismo comunista cinese. Vogliono ripensare dalle fondamenta la relazione con la Cina continentale e noi reduci dalla rivolta del 2014 ci impegniamo a riscrivere la storia della democrazia in Asia”.
La rivolta degli ombrelli alla quale si fa riferimento è la manifestazione del settembre del 2014 che, capeggiata da Law e da altri giovanissimi come Joshua Wong, Agnes Chow and Oscar Lai, portò nelle strade della metropoli decina di migliaia di persone che, in nome di un regime democratico e del suffragio universale, rimasero all’aperto per 79 giorni. È ricordata come “degli ombrelli” proprio perché gli ombrelli hanno permesso ai manifestanti di difendersi sia dal sole cocente che dai lacrimogeni e dagli spray urticanti della polizia per così tanto tempo.
A seguito delle occupazioni Nathan Law era stato condannato ai servizi sociali per “assembramento illegale”. Adesso, forte di 50 mila voti, avrà l’opportunità di rappresentare gli intenti democratici e indipendentisti risvegliati nella popolazione due anni fa. E se la rivoluzione degli ombrelli, all’epoca, aveva avuto come protagonisti fondamentalmente giovani e studenti, le recenti elezioni, con il 58% di affluenza, hanno rivelato grande presa in modo trasversale tra le classi medie, stando allo studio di The Post, editrice nazionale.
Lo stesso Law prende consapevolezza delle esigenze di una classe sociale formatasi sui valori occidentali della democrazia: “Cambiare e aggiornare il futuro è un’urgenza che non sentono solo giovani e studenti. Se ne rende conto anche il business: il futuro di Hong Kong va ridefinito qui, con i nostri valori democratici, non a Pechino con l’ideologia del partito-Stato“.
La strada per l’indipendenza dalla Cina è il referendum. L’obiettivo è realizzarlo in 10 anni, per definire l’autonomia a partire dal 2047. Fino a poco tempo fa, parlare di autodeterminazione per Hong Kong era argomento tabù; considerato addirittura illegale sia dal governo locale che da quello cinese. L’involuzione democratica fatta di arresti illegali, persecuzioni politiche e veti elettorali ha rotto gli indugi e, da due anni a questa parte, tra la popolazione è cresciuto il consenso verso una rottura storica. Secondo uno studio dell’Università Cinese di Hong Kong, il 17% degli intervistati appoggia l’idea indipendentista. Soprattutto i giovani, dove la percentuale sale al 40%.
All’indomani del terremoto legislativo, l’establishment prepara il piano di reazione mentre le nuove forze la strategia di azione. Tra i deputati filo-governativi, al momento, sono i più giovani a propendere per una rivisitazione per le regole di legislazione mentre i veterani spingono per lavorare maggiormente sugli accordi da raggiungere con l’opposizione.
D’altro canto, Eddie Chu, 84.121 voti per l’indipendenza, parla di calma e pazienza: “Negoziare con Pechino in questo momento, significherebbe arrendersi. Non siamo forti abbastanza – spiega – Dobbiamo raggiungere maggiore maturità e coesione tra le parti pro-democrazia”. Una forza che si dovrà acquisire creando coerenza tra le parti democratiche: se gli obiettivi a lungo termine sono simili, infatti, altrettanta omogeneità tra quelli nel breve periodo non è scontata.
Sara Gullace