Editoria verso la riforma
Approvata al Senato una riforma che prevede significativi cambiamenti al mondo dell’editoria. Tra questi, l’istituzione di un fondo di 100 milioni per l’innovazione e il pluralismo, l’applicazione di un tetto massimo agli stipendi Rai e la liberalizzazione dei prodotti editoriali
di Guglielmo Sano
su Twitter @guglielmosano
Giovedì 15 settembre la Riforma dell’Editoria è passata al Senato con 154 voti favorevoli (Pd, Sinistra Italiana, Area Popolare, Ala, Per le autonomie-Psi-Maie), 36 contrari (M5S più i senatori di centro-destra Roberto Calderoli e Mario Mauro) e 46 astenuti (Forza Italia e Lega Nord). Arrivato dalla Camera, il provvedimento si prepara a tornare all’esame di Montecitorio, per la decisiva approvazione, in seguito ad alcune modifiche apportate al testo esaminato dai deputati lo scorso marzo.
Tra le principali novità:
1) L’istituzione del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione. Sarà finalizzato “ad assicurare la piena attuazione dei principi di cui all’art. 21 della Costituzione in materia di diritti, libertà, indipendenza e pluralismo dell’informazione, a livello nazionale e locale, e ad incentivare l’innovazione dell’offerta informativa e dei processi di distribuzione e vendita, la capacità delle imprese editoriali di investire e di acquistare posizioni di mercato sostenibili nel tempo, nonché lo sviluppo di nuove imprese editoriali anche nel settore dell’informazione digitale”.
Si parla di 100 milioni di euro di importo massimo all’anno (2016-2018) – provenienti da risorse statali già destinate a editoria ed emittenza locale, da un contributo di solidarietà a carico delle concessionarie di raccolta pubblicitaria (0,1% del reddito complessivo annuo) e dalle eventuali maggiori entrate del canone Rai, che da quest’anno si paga in bolletta – che andranno a finanziare cooperative di giornalisti, enti senza fini di lucro, quotidiani e periodici per ipo-non vedenti, quelli di espressione di minoranze linguistiche o di associazioni di consumatori e i giornali in lingua italiana diffusi all’estero. Esclusi esplicitamente “giornali di partito” oltre a quotidiani e periodici che fanno capo a gruppi editoriali quotati o partecipati da società quotate.
2) L’applicazione di un tetto massimo agli stipendi Rai. Le retribuzioni di amministratori, dipendenti, consulenti dell’azienda in nessun caso – neanche qualora vengano emessi dei bond – potranno superare il limite di 240mila euro annui, cifra pari allo stipendio percepito dal Presidente della Repubblica. La novità introdotta da un emendamento del relatore Roberto Cociancich (Pd) prevede anche una riduzione del contributo statale assegnato sul Fondo dell’Editoria alle imprese che danno stipendi superiori ai 240mila euro.
3) Inoltre, sarà liberalizzata la vendita di prodotti editoriali così come gli orari di apertura dei punti vendita. Previsti sgravi fiscali per gli investimenti pubblicitari su quotidiani periodici, radio e tv locali. Altri importanti cambiamenti: la delega al governo sull’adozione di criteri più stringenti per il ricorso ai prepensionamenti dei giornalisti (le pensioni dovranno allinearsi con quelle generali), la ridefinizione della disciplina sui contributi pubblici (dipenderanno dalle copie vendute – non inferiore alla soglia del 30% per le testate locali e del 20% per quelle nazionali – e dagli utenti unici raggiunti, dai giornalisti assunti, dall’assunzione a tempo indeterminato di under 35). Oltre alla razionalizzazione della composizione e delle competenze del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, la concessione pubblica alla Rai passa a 10 anni, in linea con le direttive europee.
Incassata la piena soddisfazione di FNSI e FIEG e quella dell’arco politico, soprattutto per via del tetto agli “stipendi d’oro” di “mamma Rai”, qualcuno ha sottolineato come il Ddl Editoria rappresenti solo un “piccolo passo avanti”, un “quasi goal” e niente di più.
Vincenzo Vita, in un articolo apparso sul Manifesto, ha sostenuto come sia innegabile che la proposta di legge dia “un filo di speranza alle testate ancora in vita legate al ‘Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione‘ (ex Fondo dell’editoria), ridotte a un terzo dal 2009 ad oggi”. D’altra parte, “l’articolato si tiene fuori o si avvicina blandamente ai terreni dello scontro in corso: il caso Rcs, la fusione tra La Stampa e Repubblica con annessa messa in vendita del Centro di Pescara e della Città di Salerno per rientrare nel limite antitrust; ‘Mondazzoli’, emblema della crisi del libro con i riflessi sulla contesa sul salone – Torino, Milano -; il rapporto tra il prodotto e i grandi aggregatori come Google o Facebook; o le gigantesche reti della distribuzione come Amazon, il cui vicepresidente Piacentini si appresta a diventare commissario dell’ Agenda digitale a dispetto dei santi”.
Detto ciò, “al di là della legge, la Presidenza del Consiglio non ha ancora chiarito quali siano le risorse reali a disposizione quest’anno, se è vero che dai conti risultano solo (all’incirca) 14 milioni di euro a disposizione: assai meno di un decimo rispetto a dieci anni fa. E nel lungo periodo, scriveva Keynes, saremo tutti morti. Qui il periodo è, in verità, breve breve”. Ancora più chiaramente – scrive sempre Vita su Articolo21.org – “ci si attende adesso una scelta netta e non equivoca da parte del Governo sulla consistenza per l’anno in corso del Fondo. Altrimenti i giornali arrivati in vista del traguardo – decimati e indeboliti- rischiano di chiudere mentre i commentatori festeggiano. Ugualmente, è augurabile che il messaggio riformatore giunga ai tavoli dei rinnovi contrattuali, fermi e affannati dal tempo analogico”.