Interrail: guida alla sopravvivenza #2
Seconda parte del racconto dell’avventura chiamata Interrail. Tutto quello che c’è da sapere (e qualche aneddoto in più) su come organizzare un viaggio che attraversa tutta Europa, con la testimonianza viva di chi è appena tornato. Dalla cima della Norvegia ai mulini olandesi, dalla “blue” Danimarca ai borghi medievali tedeschi: la wanderlust e come ti cambia la vita
di Gloria Frezza
su Twitter @lavanagloria
SECONDA PARTE
E sia, non potrò osservar nulla diligentemente, ma in compenso
avrò visto tutto, sarò stato dappertutto; in compenso, da tutto
quel che avrò visto si comporrà un qualcosa d’intero,
un qualche panorama d’insieme. In una parola, ne verrà
fuori una qualche impressione nuova, meravigliosa, forte.
H. Böll “Opinioni di un clown”
Della grande Terra di Mezzo abbiamo scelto Amburgo come prima tappa, sempre dimenticata dagli estimatori della terra tedesca, viene descritta come un conglomerato di quartieri difficili, tifosi appassionati e industrie che mandano avanti l’intera baracca, ma c’è di più. Ci ospita Felix, che ha la nostra età e l’immensa fortuna di aver vinto due Global Pass alla lotteria universitaria; ci dice di andare a cenare a Schanze, il quartiere più in voga della città, ma di fare attenzione a non passare il confine con St.Pauli, dove si aggirano gli Hell’s Angels, un banda di criminali che picchia la gente per divertimento. Di fronte alle nostre facce sconvolte fa un mezzo sorrisino, “vi lascio il numero, se avete bisogno io e i miei amici vi troviamo ovunque in città”, beh grazie. Evitiamo il pericolo, e in compenso assaggiamo il vero hamburger di Amburgo, che ci rende abbastanza fieri di noi come primo obiettivo serale. Con il sole la città ha un profumo diverso, ci concede la sosta obbligatoria alla Cattedrale di S. Michele e un pranzo cinese all’ombra del magnifico Municipio dai tetti azzurrognoli e dorati. Risaliamo fino al Binnenalster, il parco che circonda il lago artificiale al centro della città, e raggiungiamo la Kunsthalle, vero motivo per il quale siamo venuti ad Amburgo. Questo splendido museo in stile dorico contiene la più vasta collezione di opere di Friedrich esistente al mondo, artista visionario e lirico al limite concesso all’anima, che conoscerete per “Viandante sul mare di nebbia”.
Qui incontriamo la triste e dura verità, il Museo è in ristrutturazione e dunque ripartiamo mogi mogi per Francoforte. Inserisco a margine un commento di dubbia utilità: qui comincia la mia terribile disavventura con gli asciugacapelli che, per i motivi più disparati, mi si negano per la successiva settimana a cominciare dal mio primo passo a Francoforte. Restiamo nei paraggi solo due giorni, ma vediamo la città esclusivamente di notte. Benedetta da una lunga lista di piccole meraviglie, a partire dall’immenso Duomo e dal Romerberg perfettamente conservato, per arrivare alla chiesa “Buco della Serratura” di Santa Caterina e all’accogliente Goetheplatz circondata da fontane che raccontano storie per bambini. Forse il fatto che non abbiamo ricordi di Francoforte con il sole la rende a mani basse il più delicato mistero di questo viaggio ed il posto in cui più vorremmo tornare. Durante le ore solari infatti, ci spingiamo fino al confine sud della Germania, in Brisgovia, dove riposiamo i cavalli a Friburgo. Diversa da tutto quello che abbiamo visto finora, ferma al Medioevo che le ha dato questo aspetto con qualche parca aggiunta (come una delle migliori università di Germania), Friburgo è borgo smemorato e meraviglioso sepolto tra i boschi del sud. Il Quartiere dei Pescatori varrebbe già da sé i chilometri percorsi, se al centro della Munsterplatz non si ergesse la Cattedrale più bella ed enorme che i nostri occhi abbiano mai visto. Impossibile da contenere in una solo foto, meravigliosa e temibile con la sua torre e le sue mille guglie, costituisce attorno a sé una folta popolazione di nasi perennemente all’insù. Per essere melodrammatici come è doveroso, citerei ancora il mio compagno di viaggio, che di fronte a questo spettacolo esclamò: “E pensa che la gente si tatua la Torre Eiffel”.
Dopo aver esplorato l’Alemagna da cima a fondo (è proprio il caso di dirlo), ci ritroviamo ridenti sul treno alta velocità per L’Aia, entranti in una nazione a noi totalmente ignota quale l’Olanda. Il nostro host, Aiden, è un irlandese trapiantato per lavoro amante del body-building e di sua madre, le cui foto letteralmente arredano la casa, ed incredibilmente entusiasta del nostro Interrail. Inspiegabilmente tuttavia, trova molto divertente il fatto di non possedere un phon (la sua giustificazione sarebbe l’essere calvo), il che mi crea un certo disappunto. Si fa perdonare dandoci molti consigli su come girare al meglio i piccoli e grandi centri che proprio meritano un’occhiata nei dintorni. Utrecht ci sembra un buon modo per iniziare e ci regala un pomeriggio piovoso tra caratteristici locali sul fiume e grandi rimesse per biciclette, la torre del Duomo ci squadra dai suoi 112 metri di altezza e noi rispondiamo allo sguardo tracotanti, sgranocchiando le prime vere patatine fritte olandesi (deliziose, da “Frietwinkel”).
Amsterdam invece è più difficile, per due motivi: la sua fama, che inganna anche il turista novizio con l’illusione di saper già cosa aspettarsi, e la sua planimetria, nella sua intrinseca perfezione. Te la raccontano come un connubio tra libera prostituzione e coffee-shop, omettendo la regalità e la poesia che c’è fin sopra i cornicioni. Amsterdam è una favola, come quelle città che sei convinto esistano solo in cartolina: una lunga successione di edifici stretti l’uno all’altro, con finestre decorate e le fondamenta a mollo nel canale. I tulipani sono la flora naturale e i fiori, più che una decorazione, sembrano essere dei cittadini a tutti gli effetti. Fatta colazione con dei pancakes all’olandese (che sono sottili, con un unico strato di pastella), ci dedichiamo al centro e alle sue contraddizioni: la De Oude Kerk, circondata dalle classiche vetrine di prostitute, una vecchina siede con noi di fronte alla chiesa, non prima di aver accennato un saluto verso il vetro, nessun segno di disapprovazione sul volto. Esploriamo Gracthengordel per la nostra ossessione verso le periferie e ne rimaniamo piacevolmente attratti: un quartiere verticale che scende verso l’Amstel, il canale principale, organizzato in minuscole stradine con aiuole colorate e suppellettili votivi. La discesa si conclude naturalmente nel Bloemenmarkt, il mercato dei fiori in cui la compra-vendita dei bulbi di tulipano è di gran lunga più complessa di quella della cannabis.
Facciamo una pausa nella Rembrandtplein, dove è riproposta la Ronda di Notte, pranzando con patatine fritte, ça va sans dir. La nostra esplorazione del De Pijp si conclude di fronte al Rijksmuseum, dove per mia volontà snobbiamo la scritta gigante (in favore di quella arcobaleno, molto meno celebrata, di fronte alla Stopera) e ci immergiamo nelle sue sale. Due ore dopo, frastornati da Vermeer, Rubens e Rembrandt, ci adagiamo nel Vondelpark dove un sole tiepido ci scalda i cervelli. “Ci vivresti?”, “Ci vivrei”. Amsterdam la lasciamo con un senso d’incompleto e due leccalecca alla marijuana intonsi, zaino in spalla siamo in viaggio verso Leida seguendo l’antica via dei fiori. Stavamo quasi per arrenderci classificandolo come un luogo comune, quando finalmente Leida ci regala dei mulini a vento. Il Molen de Valk, robusto ed incrollabile, ed il Molen de Put, delizioso e mansueto, prima di scattare una foto colgo un signore che ci disapprova come a dire “non siamo solo spaghetti e mandolino”, nella versione olandese ovviamente. Da Leida parte un bus ricco di anziani che ci porta di fronte al grande cancello di legno del Keukenhof, il più grande parco di fiori d’Europa. Più di 7 milioni di bulbi, disposti a cascata su piccole colline artificiali, verande e serre finemente adornate. Grande orgoglio del comune di Lisse, ultimo desiderio del vero olandese, è stato uno dei pomeriggi più esteticamente piacevoli dell’intero viaggio. Alla fine abbiamo realizzato che probabilmente il paradiso lo hanno inventato gli olandesi.
Quando ormai i miei capelli hanno raggiunto la simmetria perfetta con un pallone aerostatico lasciamo Aiden e facciamo il nostro ingresso trionfale in Belgio. La nostra camera è all’ultimo piano di una stamberga centralissima di Anversa con un solo bagno in fondo alle lunghe scale a chiocciola, per contro i nostri vicini sono simpatici e generosi e fanno finta di non vedere le nostre occhiaie quando ogni sera ci invitano ai loro party notturni. Antwerpn (in fiammingo) è una città splendida quanto sottovalutata, la Groenplaats mozza il fiato e la Cattedrale immensa e fiabesca, merita il costo del biglietto obbligatorio per entrare. Innegabilmente c’è anche molta più polizia, soldati con i mitra ad ogni angolo che sorvegliano una vita quotidiana che fatica, ma non demorde. Due passi sullo Schelda e l’anima si rinfranca, seguendo la linea del sole che muore dietro le splendide guglie dell’Hetsteen; qui apprendiamo la leggenda delle caratteristiche manine di cioccolato di Anversa, che rappresentano l’arto reciso da un rinnovato Davide al gigante che minacciava in tempi antichi la città. Compriamo le manine, credendoci ciecamente. Con l’obiettivo, tuttavia, di onorare sacralmente la vera primizia (la Birra, signori) proseguiamo il nostro tour verso Bruges, distante appena due ore da Anversa e adagiata serenamente al confine con le acque inglesi.
Borghetto sospeso nel tempo che si fregia del cosiddetto “angolo più fotografato d’Europa”, Brugge è un insieme di splendide chiesette e adorabili angoli gotici, perfettamente riportati alla vita dalla dedizione dei suoi abitanti. La chiesa del Santo Sangue ci rapisce: una posizione nascosta, delle decorazioni irreali che ricordano insistentemente i videogiochi ed uno strano rituale a ripetizione continua ci spaventano quanto basta per catturarci per più di un’ora. Rischiando di perdere il treno ci fermiamo da 2Beer, che offre una fantastica esperienza di assaggi di tutte le birre belghe più famose. L’apprezzamento della degustazione ci offre il viaggio in treno più rilassato e divertente dell’intero Interrail. Prima di lasciare il Belgio visitiamo anche Gand, senza il favore del tempo purtroppo. Sotto la pioggia la Cattedrale di San Bavone sembra addirittura più grande e i putti sulle guglie delle case in Korenmarkt paiono danzare, appena distolto lo sguardo. A tenerci occupati tutto il giorno è però la Gravensteen, una fortezza perfettamente conservata che domina il centro città e si lascia esplorare dalla cima della torre fin dentro le antiche cantine. Mentre ad ora di pranzo noi cerchiamo imperterriti i soliti frites, il resto dei turisti del giorno si dirige a colpo sicuro verso un ristorante di nome “Al Castello”. Un’insegna dice che è lì dal 1960, ma all’accento napoletano del padrone non sembra essere passato un giorno, mentre forse alla ricetta della sua pizza l’età non ha fatto così bene. Circumnavighiamo il centro seguendo la Lys, è una domenica tranquilla; in questa giornata tutt’altro che speciale di aprile si vede bene cosa vuol dire “paese di confine”, le opere di chi ha lottato per guadagnarsi un’identità propria e si è stretto fortissimo a chi ha deciso di abbracciarla e professarla come cittadino. Gent ha il sapore agrodolce della rivincita belga, che è ancora scritta sui muri.
Gli ultimi due giorni, che diventano tre a sorpresa quando la Ryanair decide di scioperare (“Era andato tutto troppo bene”, dice tragicamente il mio compare), li trascorriamo a casa di Frank. Il signor Frank vive nel distretto di Nippes, un quartiere residenziale nella Colonia nord, vicinissimo al bioparco, con una casetta in legno soppalcata che è una vera gioia per chi ha viaggiato per venti giorni tra le sistemazioni più disparate. In quei giorni Colonia con noi è molto meno clemente del buon Frank, che ci prepara la colazione ogni mattina e ci chiede con dovizia delle nostre peripezie. Fuori grandina e si susseguono venti freddi e scioperi dei mezzi, che di certo non aiutano le nostre gambe già stanche. Tuttavia, riusciamo comunque a percorrere l’Hohenzollernbrucke fino alle due guglie della Cattedrale, ad apprezzare le piccole salette adornate del Wallraf-Richartz Museum e ad addentare la salsiccia fritta imbevuta di vera birra kolsh da Brauerei zur Malzmuehle, il ristorante più famoso della città.
In aeroporto, aspettando il nostro volo di ritorno per Roma abbiamo un sussulto nel reimbarcare gli zaini (“Non mi separerò dalla mia borraccia, sappilo”). Non siamo certi di riuscire a rinfilarci nelle nostre vite senza far rumore, né di essere capaci di raccontare quello che è successo facendoci capire. Non sappiamo se mantenere il segreto e soffrire in silenzio, o gridare a gran voce l’indignazione che il ritorno porta con sé. Vive in noi il terrore della domanda finale: “Allora, cosa vi è piaciuto di più?”. L’ultimo pensiero che mi sfiora prima del decollo è la corsia snack del supermercato per studenti di Stoccolma, ma non ho mai capito il perché.
Ventitré giorni di viaggio, due zaini, quattro borracce, sei nazioni, venti città e più di trenta treni per quella che è stata la più bella e disturbante esperienza delle nostre vite. Come avvertiva l’opuscolo: “Al ritorno dovrete rimparare ad andare piano, insegnare ai cuori a battere a rilento e non ci riuscirete mai del tutto, ma è questo l’Interrail e questo è il bello: non potersi riabituare e partire ancora, senza arrivare mai”.