Caporalato: una buona legge che servirà a poco

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Approvata in via definitiva dalla Camera la nuova legge sul “caporalato”: tra i punti forti aumento delle pene e sanzionabilità dei datori di lavoro. Ma basterà l’inasprimento dell’approccio repressivo per contrastare un fenomeno radicato dove l’irregolarità è praticamente l’unica opzione?

di Guglielmo Sano
su Twitter @GuglielmoSano

braccianti-raccolta-pomodoriPene più severe con la nuova legge sul “caporalato”, approvata definitivamente martedì 18 ottobre dalla Camera dei Deputati con 366 voti a favore e nessun contrario (25 gli astenuti di Forza Italia e Lega Nord): arresto in flagranza di reato, fino a 6 anni di carcere, 8 in caso di violenza o minaccia per chi commette il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, multe da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Inoltre, saranno sanzionabili non più soltanto gli intermediari illegali, appunto, i “caporali”, ma anche i datori di lavoro, per cui può essere disposta la confisca dei beni accumulati illecitamente se trovati consapevoli dello sfruttamento perpetrato.

Altre misure disposte dal provvedimento riguardano l’estensione delle provvidenze del fondo anti-tratta ai lavoratori vittime del “caporalato”, visto che per il legislatore è ormai chiaro come i due fenomeni siano strettamente correlati, ma anche il potenziamento della Rete del Lavoro Agricolo di Qualità (“bollino” per le aziende virtuose). D’altronde, il “caporalato” è sempre stato rilevante soprattutto nei campi, oltre che nei cantieri edili, dove manodopera per la gran parte, ma non esclusivamente, di origine straniera viene sfruttata durante le raccolte stagionali. Con la nuova legge, i ministeri del Lavoro e delle Politiche Agricole si impegnano direttamente nella vigilanza e nella tutela delle condizioni dei lavoratori per mezzo di un piano di supporto e sistemazione logistica che coinvolge anche Regioni, province autonome, amministrazioni locali e organizzazioni del Terzo settore.

In realtà, il “caporalato”, ossia “l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro”, è un reato perseguibile penalmente già dal 2011, quando venne inserito nel Codice Penale l’articolo 603 bis, che puniva l’intermediazione con un periodo di reclusione compreso tra i 5 e gli 8 anni e una multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. La necessità di una nuova legge, però, si è ben presto palesata per le difficoltà di applicazione a cui andava incontro il dispositivo giuridico: infatti, la normativa prevedeva l’individuazione di un’attività organizzata di “intermediazione” ma non dava una definizione vera e propria di essa, oltra a stabilire delle specifiche condotte che costituivano lo sfruttamento.

Ecco, i 12 articoli della nuova legge semplificano il reato, liberandolo dalle suddette specifiche che ne complicavano la circoscrizione: specificando quanto detto inizialmente, adesso, la fattispecie-base del reato prescinde dalle minacce, dall’intimidazione, dal coinvolgimento o meno di un’attività organizzata, punendo in prima battuta lo sfruttamento del lavoratore, dopodiché, lo sfruttamento accompagnato da comportamenti violenti diventa un sottogenere della fattispecie-base. Insomma, approfittare dello stato di bisogno dei lavoratori – anche corrispondendogli una paga palesemente difforme da quella prevista dai contratti nazionali o comunque sproporzionata rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato – diviene l’elemento caratteristico della condotta criminosa.

Fenomeno crudele quanto inafferrabile quello del “caporalato: non sono disponibili dati ufficiali sulle sue reali dimensioni, tuttavia, potrebbero essere ben più ampie di quanto hanno fatto emergere le numerose inchieste e indagini che si sono avvicinate al tema. Per l’Istat il lavoro irregolare in agricoltura è in crescita almeno da un decennio a questa parte, secondo il terzo rapporto sulle Agromafie diffuso da FLAI-CGIL nel maggio scorso gli interessi criminali legati al “caporalato” muovono un business del valore stimato di 14-17,5 miliardi di euro, che si estende indistintamente dal Nord al Sud facendo sprofondare nella propria spirale circa 430mila persone. Detto ciò, qualcuno si è chiesto, senza mettere in dubbio la bontà della legge, se l’inasprimento dell’approccio repressivo al problema basterà a contrastare un fenomeno che affonda le proprie radici in una prassi culturale per cui l’irregolarità, l’illegalità è semplicemente l’unica opzione possibile.

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