Presidenziali Usa. Questi non sono tempi normali
A un solo giorno dalle votazioni presidenziali, la partita è ancora aperta. Ma queste statunitensi, lo sappiamo, non sono elezioni normali
di Gaia Cacace
Il 18 maggio il Washington Post aveva intitolato “this is how fascism comes to America” – è così che il fascismo arriva negli Stati Uniti – riferendosi a Donald Trump e alle sue tendenze autoritarie, razziste, sessiste.
Le ragioni del fenomeno Trump venivano individuate più nella crisi culturale che in quella economica. Una crisi simile a quella degli anni ’80 a cui, come affermato dalla storica Nell Painter, la presidenza del primo uomo nero ha in buona parte contribuito.
Trump sembra rispondere alla rabbia e alle insicurezze del nostro tempo. Una sorta di Berlusconi americano – come è stato definito – ma ancora più dannoso, poiché una sua presidenza avrebbe effetti sul mondo intero. Nonostante le affermate volontà nel corso della storia, gli Stati Uniti non sono mai stati veramente isolazionisti – se non per un breve periodo, dopo la crisi del ’29 e nei confronti solo dell’Europa.
Trump dichiara di voler “far tornare grande l’America, di nuovo”, e ci si chiede quanto la realtà internazionale abbia contribuito alla sua ascesa.
D’altro canto, queste elezioni sono fuori da qualsiasi schema. E il sessismo del candidato repubblicano è forse anche una risposta alla prima candidata donna di uno dei due maggiori partiti. In molti – compreso Trump – hanno rinfacciato a Hillary Clinton le vecchie “immoralità” commesse dal marito. Il candidato repubblicano l’ha accusata inoltre di essere stata a favore della guerra in Iraq mentre lui era contrario, cosa che secondo molti americani farebbe solo di lei una guerrafondaia – e a onor del vero la candidata democratica era davvero a favore di un intervento militare nel 2003, mentre è falso affermare che Trump fosse contrario.
Donald Trump ha impostato lo scontro elettorale sul piano individual, privilegiando l’attacco personale ai contenuti politici. E a quanto pare, la strategia funziona: piuttosto che rispondere dei propri errori, si rilancia con un’altra accusa – anche se falsa, pretenziosa o poco utile.
È probabile che le accuse pretestuose di Trump e l’evidente scettiscismo della popolazione statunitense nei confronti della prima candidata di sesso femminile, contribuiscano realmente a minarne il consenso. Ancora di più in una società individualistica come quella americana, dove spesse volte gli elettori non guardano al partito politico di appartenenza ma esprimono la propria preferenza esclusivamente per il candidato – correndo il rischio di affidargli un mandato presidenziale le cui scelte vanno discusse con un parlamento di vedute politiche opposte.
A un giorno dalle elezioni l’esito del voto è parecchio incerto e il margine di vantaggio nei sondaggi a favore di Hillary Clinton è troppo esiguo perché possa essere realmente considerato tale. L’imprenditore repubblicano viene visto come l’emblema del cambiamento. Un cambiamento positivo. Lecito domandarsi perché, in termini di cambiamento, non ne sia stato preferito uno a sinistra – quello che Bernie Sanders avrebbe certamente rappresentato. Probabilmente la risposta sta nella storia degli Stati Uniti, nell’avversione verso uno stato sociale, forte, che si faccia carico di ciascun problema delle frange sociali più deboli: d’altronde la critica alle grandi multinazionali e ai consistenti interessi economici del Partito Democratico non va sottovalutata – non a caso una delle ragioni per cui molti sostenitori di Sanders non voteranno Clinton, malgrado l’endorsment dello stesso Sanders.
A prescindere dal risultato, queste presidenziali si configurano come una sorta di spartiacque ed è indubbio vi siano parecchi problemi da risolvere in ogni caso. La democrazia americana è messa in pericolo non solo dai grandi interessi, dallo scollamento dei partiti dalla società, ma anche dalla stessa politica di potenza che sul piano internazionale gli USA continuano a giocare.
E sul piano internazionale, la politica della candidata democratica non si discosta da quella di altri presidenti statunitensi. Clinton a giugno aveva affermato che Donald Trump “non potrebbe mai avere i codici nucleari, perché non sarebbe difficile immaginarlo portare gli Usa in una guerra solo perché qualcuno possa averlo facilmente irritato” [“got under his very think skin”]. Inoltre, nello stesso dibattito, aveva ribadito la volontà di difendere Israele – considerato “il migliore alleato” – e di potere intervenire, anche militarmente, per evitare che l’Iran possa dotarsi di armi nucleari. Con la Russia, ha affermato la volontà di concludere un nuovo trattato S.T.A.R.T. per la riduzione degli arsenali nucleari.
A giudicare dalle sue esternazioni, sembrerebbe evidente che Donald Trump non sia affatto preparato sulle difficili sfide che la politica estera riserva. Se una presidenza Clinton risulterebbe quantomeno in linea con quella dei suoi predecessori – e non per questo poco dannosa – è certo che le asserite volontà del candidato riguardo a questioni come l’immigrazione, l’intensificazione degli attacchi contro l’ISIS, la costruzione di muri, la legittimazione di tecniche di tortura come metodi per “salvaguardare la sicurezza della nazione” e i suoi toni ottusamente violenti costituiscano una minaccia per tutti noi.
“Questi non sono tempi normali” – verrebbe da dire, citando una frase di Franklin Delano Roosvelt riguardo ai fascismi.
E Donald Trump costituisce certamente una novità. Una terribile novità.