La disubbidienza delle donne
Fino al 18 novembre la Casa della Memoria e della Storia di Roma ospita una mostra sulle storie di donne che durante il ventennio fascista furono internate perché “diverse”
di Gaia Cacace
su Twitter @gaia_cacace
Della repressione manicomiale durante il ventennio ne avevamo già parlato recensendo il volume di Matteo Petracci, “I matti del duce“. A Roma la mostra “I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista”, ospitata fino al 18 novembre all’interno del centro di documentazione Casa della Memoria e della Storia, è naturalmente collegata allo studio dell’autore. Ripercorre le vite di quelle donne che furono internate perché non s’erano adattate allo stereotipo che il fascismo aveva preparato per loro. In particolare le storie delle recluse provengono dal manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, dal quale emerge che soprattutto appartenenti al ceto contadino, che avevano vissuto di stenti, venivano internate.
Non è antifascismo politico oggetto dell’esposizione, ma la difficoltà ad adeguarsi ad un modo di vita assoluto, ed assolutizzante. Il regime aveva una idea ben chiara dei ruoli, e alle donne non spettava null’altro che la cura della famiglia, l’ambito privato e domestico che già l’800 aveva loro relegato.
Il fascismo lo estremizzò, privandole delle lotte e delle libertà che stavano altrove appena conquistando. Ma la normalità è un concetto nella storia mutevole, e il guaio è che tutto ciò che ne è escluso possa essere considerato deviante e, perciò, quantomeno “curabile”.
Così, i ricoveri manicomiali furono previsti in maggior misura durante il ventennio fascista, e non solo furono usati come repressione verso il dissenso politico, ma anche verso visioni della vita antitetiche alla sola considerata moralmente adeguata.
Vi sono, nelle storie esposte, le “madri contro natura”, che come Rosa Giulia, sentivano il peso del ruolo materno che veniva loro imposto, e che non avrebbero voluto procreare; o le donne “fuori dai ruoli”, che in alcuni casi avevano avuto figli fuori dal matrimonio o erano considerate “erotiche”, indipendenti, disubbidienti, e perciò non confacenti allo stereotipo di mogli-madri.
Vi sono donne che hanno patito il peso della seconda guerra mondiale, ed hanno sofferto di ansie e terrori dopo i bombardamenti alla propria città. E vi sono le “violate”, donne stuprate che venivano poste sotto perizia psichiatrica per controllare che fisicamente e mentalmente avrebbero potuto resistere all’atto, cioè che fossero state in grado d’intendere e di volere, come previsto dal codice Rocco. E dovevano dimostrare di non essere state seducenti, di non avere provocato in nessun modo quella violenza.
Ma già le bambine e le adolescenti potevano essere internate, se presentavano segni “d’imperfezione” tali da farle considerare inutili per il resto della società. Era la paura della degenerazione della razza a giustificare e legittimare tali misure.
Una paura a cui, come sappiamo, contribuì la “pseudoscienza” dell’epoca, e vi contribuirono i testi di Cesare Lombroso, che considerava il cranio femminile troppo piccolo e simile a quello di un bambino. Essere internati era d’altronde estremamente semplice: bastava che qualcuno, come un parente, ne giudicasse la necessità.
In mostra vi sono anche i visi di coloro che dovettero subire la mancanza di libertà, così come alcune delle lettere che esse scrissero, e che vennero censurate e mai spedite. È doveroso riflettere su un passato a noi molto vicino e sulla necessità di cambiare il nostro presente, anche con una maggiore presenza femminile che potrà, forse, permettere che certi stereotipi radicati possano finalmente cessare di esistere.
I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista
fino al 18 novembre 2016
Casa della Memoria e della Storia – Roma
Ingresso libero – Info e orari