Sessantaquattro governi in 70 anni: l’immaturità della nostra democrazia
Stabilità e governabilità sono necessarie non perché “ce lo chiede l’Europa” o “ce lo chiedono i mercati”, ma perché un Paese che si definisce “grande” non può farne a meno
di Marco Assab
su Twitter @marcoassab
Deve essere stata una fatica per il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricevere 23 diverse rappresentanze parlamentari in due giorni, ascoltare pazientemente 23 pareri e trovare una sintesi tra essi. Già perché tra Camera e Senato, oltre ai gruppi parlamentari espressione delle principali forze politiche, abbondano gruppetti e gruppuscoli, la maggior parte dei quali nati in corso di legislatura, scaturiti da scissioni e abbandoni di partiti maggiori.
Nella maggior parte dei casi però non si tratta tecnicamente di gruppi parlamentari, in quanto non raggiungono quel numero minimo stabilito (20 deputati o 10 senatori) per la formazione di un vero e proprio gruppo in un ramo del Parlamento. Si tratta altresì di componenti del gruppo misto, formate anche da pochi parlamentari, ciascuna delle quali di diversa natura politica e con un diverso indirizzo politico. Tali formazioni, avendo appunto preso vita nel corso della legislatura, spesso recano nomi che non corrispondono ad alcun partito votato dai cittadini. Dunque è lecito domandarsi: chi rappresentano?
Oggetto di questa analisi però non è il vincolo di mandato, e nemmeno la spinosa questione dei cosiddetti “cambi di casacca”. Il fenomeno della frammentazione parlamentare, tipico della Seconda Repubblica, è solo uno di una serie di elementi che concorrono nel definire i contorni di una democrazia non pienamente matura.
Non può essere matura infatti una democrazia nella quale il Parlamento non si dimostra capace, dopo anni, di dotare il Paese di una legge elettorale che sia conforme ai principi costituzionali e che garantisca stabilità e governabilità in entrambe le camere. Non è matura una democrazia parlamentare dove ci si affida alla Corte Costituzionale per avere una legge elettorale. Non è matura una democrazia dove i giudici devono, con le loro sentenze, intervenire per colmare i vuoti di una politica spesso inconcludente e pasticciona.
Tra le democrazie occidentali l’Italia rappresenta un caso a sé. Sia per le peculiarità della sua architettura istituzionale (vedi bicameralismo perfetto), sia per la turbolenta instabilità politica che l’ha sempre caratterizzata dal dopoguerra fino ai giorni nostri. Dal 1946 ad oggi si sono susseguiti 64 governi con durata media di 1 anno. Tuttavia nella Prima Repubblica era comunque la Democrazia Cristiana a garantire una certa continuità politica sullo sfondo di continue crisi di governo (quasi tutti esecutivi targati Dc appunto).
Ma nella Seconda Repubblica, con il venir meno dei partiti tradizionali e dei netti confini ideologici tra un partito e un altro (che limitavano moltissimo i cambi di casacca), si è venuta a configurare una “fluidità” politica dove cambiare schieramento risulta molto più facile. Se a questo elemento di instabilità aggiungiamo quelli costituiti da legge elettorale, bicameralismo paritario, conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni scaturiti da una riforma del titolo V (quella del 2001) orribile, ecco che il quadro è completo.
La stabilità e la governabilità non sono necessarie perché “ce le chiede l’Europa” o “ce le chiedono i mercati”. Di cosa chiedono “i mercati”, che non sono entità metafisiche, ma persone in carne ed ossa, dovrebbe iniziare ad importarcene molto di meno, anzi: il dovuto. Stabilità e governabilità sono due elementi imprescindibili per un Paese che si definisce “grande” e che si siede (legittimamente) al tavolo dei grandi. Il problema è che a questo tavolo mandiamo ogni volta, a stretto giro, persone diverse…
Non è credibile e nemmeno affidabile un Paese che cambia un governo quasi ogni anno. Così come non si può pensare di affrontare quelle serie emergenze che tutti i giorni riempiono le colonne dei giornali con esecutivi deboli, esposti al costante rischio che fronde parlamentari li facciano cadere. Governi che spesso si reggono su maggioranze risicatissime (vedi Prodi e i senatori a vita…) e che, altrettanto spesso, sono costretti ad assecondare le richieste delle componenti minoritarie della propria coalizione, che assurgono ad ago della bilancia.
Della riforma costituzionale appena bocciata si può avere qualsiasi giudizio nel merito: che fosse scritta male, che quel tipo di Senato fosse improponibile, che non rimodellasse adeguatamente le competenze di Stato e Regioni. Ma non è un’eresia dire che una riforma in questo senso servirebbe davvero al Paese. Non è un’eresia dire che il bicameralismo paritario ha fatto il suo tempo, che il titolo V della Costituzione va rivisto al più presto per mettere ordine in quel caos assoluto che sono poteri e competenze di Stato e Regioni.
Democrazia giammai ha fatto rima con anarchia. Sono due cose totalmente diverse.
Attendiamo dunque che il Paese abbia, una volta per tutte, una legge elettorale uniforme per Camera e Senato, senza liste o capilista bloccati, per recuperare quel rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti che negli ultimi anni sembra andato a farsi benedire (argomento che meriterebbe un articolo a sé).
Unica nota positiva, in questo delicato passaggio politico-istituzionale, è sapere che al Quirinale c’è un fine costituzionalista a gestirlo, oltre che un galantuomo.
Una risposta
[…] e il solito Aventino che ormai, anche questo, ha perso di credibilità, è stato presentato il sessantaquattresimo esecutivo da quando è nata la Repubblica. Un esecutivo di responsabilità, rassicurano dai banchi del […]