C’era una volta il Ddl contro la tortura…
È lì, fermo in Parlamento da quasi 3 anni. Nessuno sembra volerci mettere mano. Cosa rende impossibile l’approvazione del reato di tortura? Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza su una tematica che nessuno, in Italia, sembra aver voglia di affrontare, partecipando a Roma alla presentazione del libro “Tortura fuorilegge” durante “Più libri Più liberi”
di Mattia Bagnato
su Twitter @bagnato_mattia
Tortura fuorilegge. È questo il titolo scelto per il libro pubblicato da Forum Editrice e presentato sabato 10 dicembre alla Fiera letteraria Più libri Più liberi[1] di Roma. Un nome che è tutto un programma. Mai scelta sintattica, infatti, fu più provocatoriamente azzeccata. Le ragioni, entrambe svelate nel gioco di parole, sono tanto semplici quanto preoccupanti. Prima fra tutte, la necessità di adoperarsi al fine di bandire, definitivamente, questa aberrante pratica. Poi, ed è proprio qui che la sintassi si fa più provocatoria, rimangono ancora da capire le ragioni che hanno impedito, ad oggi, al Parlamento italiano l’approvazione di un disegno di legge fermo in Senato da anni.
Cerchiamo, allora, di scavare nel merito di una questione spinosa, capace di dividere la classe politica nostrana. Ida Dominijanni non ha dubbi a tal proposito: quando parliamo di tortura ci riferiamo ad una degenerazione del comportamento umano. Una regressione antropologica, a metà tra sadismo e mania di onnipotenza. In altre parole, della mortificazione estrema di una Persona da un punto di vista fisico, psicologico e morale. Annullare qualsiasi forma di resistenza della vittima, umiliandola e degradandone il fisico. Potenza vs Impotenza. La potenza dello Stato, in questo caso, contro l’impotenza dei cittadini di fronte a coloro che esercitano l’uso “legittimo” della violenza.
Una contrapposizione inevitabile, che non si può non considerare. Talmente imprescindibile, da finire per intrecciarsi, a doppio filo, con gli stessi concetti di stato di diritto e di garanzie costituzionali. Due capi saldi delle costituzioni occidentali, tanto per intenderci, all’apparenza accantonate in nome della sicurezza pubblica. La stessa che, alla luce dei fatti del G8 di Genova nel 2001, della caserma di Bolzaneto e più recentemente in Val di Susa, ha riacceso il dibatto sui limiti all’uso della forza da parte dello Stato. Una dicotomia che, con le dovute proporzioni, interessa la sfera delle libertà politiche perché invasiva del diritto di manifestazione del dissenso.
A preoccupare la giornalista, però, è la preoccupante percezione di un ritorno in sordina dell’uso della tortura nella società contemporanea. Una “prassi” che, teoricamente scongiurata dalla Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, sembra essersi nuovamente diffusa “microfisicamente”. Ospedali psichiatrici, asili nido, case di riposo e centri d’accoglienza. Luoghi spesso lontani dal circolo mediatico, dove si consumano parte delle violenze sopra citate.
Ciò che ci interessa in questa sede, tuttavia, è cercare di comprendere le ragioni profonde che fanno dell’Italia un Paese, per così dire, borderline. Dove si fa fatica ad accettare che le forze dell’ordine adottino un numero identificativo. Soprattutto, però, nel quale sembra eccessivamente complicato risalire ai responsabili. Vengono alla mente, infatti, tutti quei casi in cui si è cercato di far calare il silenzio di fronte agli abusi. Casi di sospensione dello stato di diritto, come quelli di Stefano Cucchi, Federico Aldovrandi e ancora la macelleria messicana in cui si è trasformato il blitz alla scuola Diaz (con tanto di molotov falsa), necessitano di una più accurata riflessione.
“Governamentalizzazione della tortura”, così la definisce Dominijanni. Prodotto, ha detta della scritice, della più tipica delle regola del neoliberalismo. Dove, i concetti di giusto e sbagliato seguono una logica astratta e, a tratti, incomprensibile. È giusto, usare la forza contro ogni ragionevole rispetto dei Diritti Umani? La risposta a quanto pare è: dipende. Dipende dalle motivazioni, dalle modalità e, infine, dal nemico contro cui “combattiamo”. Il nemico, ago della bilancio, ogni è il terrorismo. Quello targato Isis, incarnato dai tagliatori di teste di nero vestiti.
È proprio qui, allora, che la questione si fa d’improvviso più complessa. Ciò che, a mio avviso, è certo è che se c’è distinzione, ammesso che ci sia, tra noi (civili e democratici) e loro (fondamentalisti assetati di sangue) è tutta nelle modalità con cui scegliamo di difendere le nostre democrazie. Una scelta, dalla quale può dipendere la credibilità delle istituzioni democratiche e, perché no, anche l’immagine che il resto del mondo avrà di noi. Una tematica tutt’altro che semplice, della quale si potrebbe discorrere per ore senza, alla fine, trovare un punto d’accordo. Per questo, ma soprattutto perché questa esula dal obiettivo di questo scritto, ritengo più opportuno fare un passo indietro.
Fino ad arrivare al nocciolo del discorso, come si suol dire. Giace da tempo immemore nel Parlamento italiano una proposta di legge contro la tortura. Adagiata in un cassetto, come la bella addormenta. Una disegno di legge che fu presentato, dall’allora Governo Renzi, come il cavallo di battaglia di quella legislatura. Giace, appunto, perché nessuno sembra avere la volontà politica di portare a compimento l’iter parlamentare. Non vuole Forza Italia, non lo vuole la Lega Nord e, alla fine, non l’ha voluto nemmeno il Pd. Che per interposta persona (vedi Angelino Alfano) l’ha bloccato[2]. Così lui, il Ddl contro la tortura, giace ancora lì in fondo al quel cassetto.
Lo avrebbero voluto, invece, la mamma di Federico, la sorella di Stefano e tutti i familiari dei ragazzi massacrati a Genova. Quello che, però, avrebbero voluto di più, immaginiamo, fosse la giustizia. Ma questa è un’altra storia. Noir come quelle alla Carlo Lucarelli, piene di suspense e che non sai mai come vanno a finire.
Al netto del coraggio, quello politico che ben diverso da quello d’animo, l’assente ingiustificato è, ancora una volta, l’interessamento dell’opinione pubblica. La stessa, che su questo tema appare quanto mai distante. È la stessa giornalista ha trarre la sua personalissima conclusione. A parer suo, infatti, ciò che sta avvenendo in Italia è una sorta di “assuefazione da tortura”, che sembra stia diventato accondiscendenza. L’abitudine, cioè, ad essere trattati male dalle forze dell’ordine fino al punto che, ormai, non ci si indigna più.
[1] http://www.plpl.it/event/tortura-fuorilegge/
[2] http://espresso.repubblica.it/palazzo/2016/11/21/news/reato-di-tortura-ecco-chi-blocca-la-legge-1.288911